Steve Albini. Tutti gli album ai quali ha collaborato (o quasi) (2024)

Steelworker. L’uomo che trovò il suono giusto

If a record takes more than a week to make, somebody’s f*cking up

“Se ci vuole più di una settimana per fare un disco, allora qualcuno sta sbagliando qualcosa”. Questo ormai celeberrimo estratto della lettera che Steve Albini inviò ai Nirvana il 17 ottobre 1992, circa tre mesi e mezzo prima di entrare insieme a loro ai Pachyderm Studios di Cannon Falls, Minnesota per registrare In Utero, ha finito, inevitabilmente, per diventare il suo epitaffio. A detta dei più, con la sua improvvisa scomparsa lo scorso 7 maggio si è chiusa un’era. Non è un’esagerazione.

Molta musica non sarebbe esistita senza di lui, o sarebbe stata molto diversa. Non contando il pur importante segno lasciato nella storia del rock indipendente dai progetti artistici di cui è stato anima, mente, corpo e braccia (Big Black e Shellac, oltre alla breve parentesi Rapeman), quest’uomo ha apposto la sua firma sonica su un numero imprecisato di album pubblicati a partire dalla seconda metà degli anni ’80 da parte degli act più disparati. Avventurarsi in una lista o conteggio, anche solo di massima, è un’impresa improvvida, così come stilare un elenco del tutto completo ed esaustivo.

Steve Albini, a detta sua, non è stato un produttore. Il suo rifiuto categorico di tale titolo è storico tanto quanto le sue proverbiali boutade su colleghi, musicisti, album, personaggi vari e altrettanto svariati campi dello scibile umano, non solo musicale. Si vedeva come un operaio, come un semplice working man; nella medesima missiva citata in apertura, chiede alla band in quel momento più famosa e pagata del mondo di essere retribuito come un idraulico. Preferiva, di certo, farsi chiamare ingegnere del suono. C’è chi lo ha definito un facilitatore, per il modo in cui svolgeva semplicemente il ruolo di tramite tra i musicisti e lo studio (e il processo) di registrazione. C’è chi invece preferisce vederlo come un mago, un alchimista, uno scienziato punk-rock che grazie a un irripetibile miscela di talento, esperienza, intelligenza, etica e ideologia ha inventato (nel senso etimologico del termine: trovato) un suono.

Sia come sia, pur essendo indubbiamente un impareggiabile ingegnere del suono (le sue procedure di ripresa dei suoni in studio sono scientifiche, uniche, frutto di anni di studio, esperienza e costante progresso tecnico), Albini produceva, eccome. Soltanto, produceva non producendo, o meglio evitando tutti quegli interventi più o meno invasivi che normalmente si associano alla produzione di un artefatto sonoro destinato alla riproduzione su supporto.

Se ciascun produttore ha un proprio marchio, uno stile a cui sia più o meno immediatamente associabile per certe caratteristiche del suo lavoro in studio (giusto per fare qualche esempio: l’uso del riverbero, l’editing, le sovraincisioni, le manipolazioni dei nastri, l’impiego di tecniche compositive dettate dallo studio di registrazione …), Steve Albini aveva certamente anche il suo, riconoscibile a prima nota (il suono secco e crudo, la profondità e l’attacco della batteria, l’abrasività delle chitarre, l’uso mirato della stereofonia, la voce mixata al livello degli strumenti quando non più bassa, l’importanza dell’ambiente come elemento del suono) che era frutto di scelte precise, ponderate, granitiche, aprioristiche, di natura pratica ed economica ma anche etica e artistica (dalla filosofia di arrivare ben preparati in studio e registrare il meno take possibile al rigore analogico, fino all’assenza di effettistica, al rifiuto di abbellimenti che non avessero valore compositivo e precise impostazioni di mixaggio della voce), imbevute di una integrità di visione che spesso è anche entrata in contrasto con la visione dei musicisti stessi e ha finito per plasmare il carattere del suono. Nel corso di questo approfondimento saranno forniti diversi esempi al riguardo; tutti sono testimonianza della personalità di un produttore che, a differenza degli altri colleghi, non voleva essere chiamato tale.

La ragione è squisitamente ideologica. L’intero operato di Albini, qualsiasi veste abbia indossato o nomenclatura abbia scelto per sé, è riconducibile alla costruzione, autentica, di una alternativa. Prima che i termini indipendente e alternativo diventassero etichette-ombrello con cui identificare non-generi musicali, costruire un’alternativa significava realmente operare in modo diverso, se non diametralmente opposto, al sistema dominante, senza scendere a compromessi.

Partendo dalla propria attività di musicista, Albini ha finito per trovare e dare un’identità sonora al mondo alternativo. Il suo suono, pur in modo non tangibile, visibile e forse nemmeno così facilmente spiegabile, è diventato un riferimento per centinaia di musicisti che si riconoscevano nella sua etica e nella sua integrità. Ha saputo tirare fuori dall’aria il suono giusto che desse una vera identità a coloro che volevano essere diversi; ha unito sotto la stessa bandiera una miriade di artisti che avevano bisogno, sonicamente, di una casa, trovando il modo giusto (o che lui riteneva fosse tale) di far suonare i loro dischi.

Si pensi, di converso, alle produzioni di metà ’80 major di gente come Hüsker Dü o Replacements, al loro essere mortificati da suoni digitali, batterie di cartone, mixaggi senz’anima che appiattivano il loro meraviglioso frastuono originario prodotto alchemicamente in sala; allora, la battaglia condotta, e vinta, da Steve Albini, sembrerà ancora più sensata, anche al netto della sua successiva importanza storica. Impossibile, oggi, pensare a un certo mondo senza il suono di Steve Albini. Che sia davvero la fine di un’era o meno, sembra quanto mai opportuno celebrare il suo lavoro attraverso una serie di dischi e artisti – senza alcuna pretesa di completezza, s’intende – rappresentativi della sua storia. E di quel suono giusto. (Antonio Pancamo Puglia)

Steve Albini. Tutti gli album ai quali ha collaborato (o quasi) (1)

Your Bone’s Got A Little Machine. I dischi “mainstream”

Pixies – Surfer Rosa (4AD, 1988)

Che suono hanno le ossa che si rompono? Probabilmente quello degli strumenti che entrano caracollando e cozzando tra loro dopo le quattro battute iniziali di Bone Machine. Scarno, spazioso, secco, essenziale, ruvido: il timbro della batteria di David Lovering all’inizio di Surfer Rosa è il marchio di fabbrica di Steve Albini, quello che ha convinto molti di quelli venuti dopo a volerlo per i loro dischi. Incidentalmente, la sua prima produzione importante (così si legge in copertina: produced by) è anche uno di quegli album che hanno cambiato il corso delle cose, non solo per il modo in cui suona e per come è stato registrato (e da chi).

Qui però è bene soffermarsi proprio su questo aspetto, su come ci siano voluti dieci, non facili giorni di lavoro ai Q Division Studios di Boston – e non la canonica settimana albiniana – per difficoltà ad ottenere il risultato voluto, sul modo in cui sia stata usata l’acustica del bagno per l’eco nella voce di Kim Deal in Where Is My Mind (con le backing vocals che restano sospese sparito d’improvviso il resto – stesso trick usato più avanti per Rid Of Me), sulle chiacchiere da studio lasciate volutamente dentro in modo surreale e situazionista, sui giri sui tom in stereofonia, sulle chitarre doppiate di Joey Santiago, sulla voce di Black Francis lasciata indietro (e distorta disumanamente in Something Against You attraverso un amplificatore per chitarra), sui volumi assurdamente bassi di Cactus. Che questo fosse davvero il suono giusto per i Pixies, considerato che la band avrebbe comunque assecondato le proprie voglie pop assoldando Gil Norton già per le versioni su singolo di Gigantic e River Euphrates, è dibattibile. Che sia stato un suono che ha cambiato la storia e aperto un mondo, no. (Antonio Pancamo Puglia)

Breeders – Pod (4AD, 1990)

A dispetto dell’impatto epocale di quel disco, negli anni successivi all’uscita di Surfer Rosa fa strano come sia Steve Albini (che in modo poco lusinghiero paragonò i Pixies a vacche trascinate per il naso da discografici e produttori, salvo poi ritrattare) sia Black Francis (che preferì da subito rivolgersi altrove, mai più cercando quel tipo di suono) sembrarono voler bollare l’esperienza tra quelle da non ripetere. Così non fu per Kim Deal, che invece non esitò a richiamare l’ingegnere del suono per la prima sortita in libertà all’indomani dell’esplosione del gruppo madre, al cui interno si erano già aperte insanabili crepe.

Il debutto delle Breeders, Pod, prende le mosse proprio da quel suono scheletrico sperimentato due anni prima con l’ex Big Black, stavolta al servizio di canzoni sonnolente, dolci, minacciose e terribili insieme. Nulla lascia presagire il fragore di Cannonball tre anni dopo: l’indolenza di Glorious, le melodie nervose e accattivanti insieme di Only In 3s e Doe appaiono come un rifraseggio di quella formula al servizio di un songwriting e di dinamiche compositive decisamente più femminili, inquiete, affascinanti e misteriose.

Albini fu ovviamente determinante, chiamando dietro ai tamburi Britt Walford degli Slint (accreditato come Shannon Doughton, nella divertente finzione di un gruppo tutto al femminile), registrando tutto in sette giorni – chiaro! – e costringendo la Throwing Muses Tanya Donnelly (co-titolare di Deal in quello che originariamente avrebbe dovuto essere un mostro a due teste) a rinunciare alle armonie vocali e a non (re)incidere altre take di chitarra oltre le due previste. (Antonio Pancamo Puglia)

PJ Harvey – Rid Of Me (Island, 1993)

Tra le vittime illustri di Surfer Rosa non c’è solo un certo ragazzo di Seattle: complice il successo di quel disco nella sua Inghilterra, una ragazza del Dorset capisce subito che le sue canzoni hanno bisogno di quel trattamento particolare per suonare, se possibile, ancora più nude e crude di quanto natura non le avesse già fatte. Il fortissimo desiderio di PJ Harvey di lavorare con Steve Albini si concretizza, fortunata lei, già a inizio carriera con il successore dell’acclamato Dry, nella giusta temperie storica e culturale all’indomani della deflagrazione alternative e grunge. Nell’estrema brutalità estetica in ogni suo aspetto, Rid Of Me va persino oltre i modelli provenienti da oltreoceano e (ri)fonda un concetto di femminilità rock personale e irripetibile, che trascende l’epoca in cui è stato realizzato e al contempo ne è epitome.

Merito della sua autrice, delle sue canzoni (spigolose, metalliche, ulcerose; blues post-femminista, azzarderemmo) e del loro scarno ed essenziale accompagnamento (il bassista Steve Vaughan e il batterista Rob Ellis), certo; ma senza quel suono e quelle scelte di produzione Rid Of Me non ti colpirebbe come una sprangata sui denti lasciandoti, parafrasando, felice e sanguinante. Basterebbero l’attacco bulldozer della title track e la sua chiusura, con il gracchiare sgraziato e implorante di Polly lasciato a ripetere “lick my legs, I’m on fire, lick my legs of desire”; ma mi raccomando, non ditelo a Elvis Costello(Antonio Pancamo Puglia)

Steve Albini. Tutti gli album ai quali ha collaborato (o quasi) (2)

Nirvana – In Utero (Geffen, 1993)

Scritta la famosa lettera e ottenuto l’ingaggio, prima di entrare ai Pachyderm Studios, Albini allunga a Cobain un nastro dell’ultimo album che ha inciso lì. “Il suono di Rid Of Me, tra tutti quelli che avevo sentito, era il più simile a quello che avevo nella testa”, avrebbe confermato Kurt al biografo Michael Azerrad, “dovevo proprio averlo”. D’altronde, era da almeno tre anni che, ad ogni occasione, citava Surfer Rosa e Pod come due tra i suoi album preferiti in assoluto; e non è peregrino pensare che la maggior parte degli ascoltatori si siano avvicinati a quei dischi (e all’uomo che ne ha plasmato il sound) grazie a cotanta pubblicità.

Analogamente, l’impatto mediatico e storico del protagonista rende inevitabile che oggi Steve Albini sia ricordato presso il pubblico generalista come “il produttore dei Nirvana”. Fa molto ridere, a pensarci bene. Lui, lo stesso che prima di venire contattato li aveva definiti come “insignificanti”, “una versione scadente del suono di Seattle”, “nient’altro che i R.E.M. col distorsore” e altre lusinghe. Perfetto stile Albini, insomma. Che però, davanti all’occasione di una vita, non si tira indietro e anzi, da abile giocatore di poker qual è, raddoppia e rilancia, offrendo quell’integrità etica e artistica che Cobain cercava più di ogni altra cosa per lavarsi dei suoi peccati.

Il sogno punk rock dell’ex Big Black di penetrare il sistema con quel cavallo di Troia chiamato In Utero e infettarlo per sempre dal suo interno si avvererà solo in parte, per svariati motivi; alla luce di ciò, tra le tante cose la famosa epistola scritta a Kurt, Krist e Dave non è altro che un manifesto rivoluzionario, messo in pratica realizzando un album che la Geffen troverà inascoltabile e che metterà a dura prova gli stessi membri della band – un Novoselic schifato dall’inascoltabile assolo originario di Heart Shaped Box; un Cobain che condivide le preoccupazioni dei “tizi in giacca e cravatta” e torna in studio per reincidere armonie vocali, chiamando Scott Litt a mixare i singoli. Per tutti questi motivi, sì: In Utero è la produzione più importante a cui Steve Albini abbia mai lavorato. (Antonio Pancamo Puglia)

Bush – Razorblade Suitcase (Trauma/Interscope, 1996)

Seppur bistrattati dalla critica, negli anni ’90 i Bush erano una delle poche band inglesi ad avere successo negli Stati Uniti. Razorblade Suitcase li fece arrivare addirittura al primo posto della classifica di Billboard. Ma, in realtà, i Bush la fama ce l’avevano già, visto che il loro disco d’esordio – Sixteen Stone – aveva venduto ben 5 milioni di copie. Quello che gli mancava era la credibilità. Forse per questo, per il loro secondo album, decisero di affidarsi alla produzione di Steve Albini, che in effetti li aiutò a rendere meno levigato il loro “post”grunge tirato a lucido, rendendolo più sporco e oscuro. I brani sono più lunghi, lenti e privi di ganci, i testi ricchi d’immagini come cuori inquinati, dita spezzate e polmoni anneriti.

Ricorda qualcuno? Il prefisso “post” gli era stato appioppato proprio perché inizialmente considerati una sorta di copia sbiadita del grunge originale e in particolare dei Nirvana. Il fatto di essersi affidati al produttore di In Utero, poi, non fece altro che inasprire le accuse d’imitazione. Peccato perché il disco, seppur in parte derivativo, è solido e compatto: tolto il singolo Swallowed, che fa storia a sé, rimane un lento sprofondare nella depressione senza via d’uscita, con qualche schizzo d’ira residuale, molto più Alice In Chains che Nirvana, se proprio dobbiamo fare un paragone. Da riascoltare perché “Alcuni satelliti del dolore non possono essere ignorati per sempre”. (Fabrizio De Palma)

Jimmy Page & Robert Plant – Walking Into Clarksdale (Mercury, 1998)

La fama di persona integra e per nulla incline a scendere a compromessi con il “sistema” in genere, e con il mondo del music business in particolare, ha sempre accompagnato lo Steve Albini punk rocker iconoclasta e produttore instancabile e rigoroso; tanto da renderlo per molti anni “persona non grata” agli occhi di molti. In particolare, dopo il successo dell’album In Utero, questo suo dogmatismo divenne quasi fatale in una fase della sua carriera – intorno alla metà degli anni ’90 – in cui contemporaneamente all’onere della costruzione dello studio di registrazione di sua proprietà – l’ormai leggendario Electrical Audio – si accompagnava un improvviso scarseggiare di ingaggi.

Mentre gli artisti dell’underground vedevano il produttore come inarrivabile, ormai passato ad una lega superiore, le major lo evitavano accuratamente sulla base del suo essere un rompiscatole che non sta alle regole del gioco. L’interessamento da parte di due “dinosauri” del rock – proprio la categoria di musicisti che il produttore aveva sempre disprezzato più per ciò che rappresentava ed il pubblico che la seguiva, che per demeriti musicali – come Jimmy Page e Robert Plant, inaspettato fan di lunga data dell’Albini, si rivelò a questo punto davvero provvidenziale.

Walking Into Clarksdale è il risultato di questa collaborazione. Un album per nulla ruffiano (come ci si sarebbe potuto aspettare), onestamente “zeppeliniano”, classico ma senza voler rincorrere troppo il passato. Registrato negli Abbey Road Studios di Londra durante cinque intense settimane, il disco vede Plant e Page anche in veste di produttori titolari mentre ad Albini toccava il più congeniale ruolo di ingegnere del suono. Un incontro tra l’aristocrazia rock e uno dei più fieri “manovali” dello studio di registrazione che vale la pena rispolverare e apprezzare alla luce di una carriera, quella di Albini, destinata a fare scuola a sé stante. (Tony D’Onghia)

Manic Street Preachers – Journal For Plague Lovers (Columbia, 2009)

Salutato da critica e fans come un ritorno in piena forma da parte dei gallesi Manic Street Preachers, Journal For Plague Lovers deve forse un po’ della sua rinnovata carica e pregnanza anche al lavoro di Steve Albini al banco di regia. Prodotto in tandem assieme al britannico David Eringa – collaboratore di vecchia data della band – l’album include tredici canzoni tutte basate su liriche inedite scritte da Richey Edwards, membro originario della band scomparso misteriosamente nel 1995, e messe in musica per l’occasione dai rimanenti tre membri della band.

Viste le premesse e le circostanze nelle quali il disco è stato pensato e realizzato, e anche alla luce della partecipazione di Albini alla sua produzione, è impossibile per chi scrive non vederlo come un nemmeno tanto lontano parente di In Utero dei Nirvana. Inoltre, il tipico abrasivo, organico e naturalistico “Albini sound” lo distingue da buona parte della produzione dei Manics, riportandoli alle atmosfere ed al livello qualitativo di The Holy Bible; quello che viene universalmente visto come il loro album più significativo. (Tony D’Onghia)

Steve Albini. Tutti gli album ai quali ha collaborato (o quasi) (3)

Dont’Get Me Wrong, He’s A Nice Guy. I classici indie

Slint – Tweez (Jennifer Hartman / Touch and Go, 1989)

È il 1989 quando Tweez, l’esordio discografico degli Slint uscito prima per l’etichetta Jennifer Hartman Records e succcessivamente con Touch and Go Records, entra a gamba tesa nella scena rock made in USA gettando le basi per tutto quello che verrà poi “etichettato” come Math e Post-rock. Inserendosi nel pieno di quel tumulto musicale caratteristico della fine degli anni ’80, complici tanto il Punk Hardcore quanto l’esuberanza a tratti malinconica dei Fugazi e dei Sonic Youth, il disco non solo trova la sua collocazione ideale ma, essendo stato in realtà realizzato due anni prima, risulta addirittura profetico. Si tratta di un lavoro urgente e spontaneo che risente non solo del fermento culturale dell’epoca (inclusa l’esperienza del cantante e chitarrista Brian McMahan nei leggendari Squirrel Bait) ma anche e soprattutto della mano di Steve Albini, accreditato nel booklet come “Some f*ckin’ Derd Niffer”.

Ascoltando infatti i nove brani che lo compongono è impossibile non avvertire anche la cifra stilistica del “producer” – o meglio, sound engineer – americano. Già dalla primissima traccia, Ron (il cui titolo fa riferimento al nome del padre del batterista Britt Walford) fino all’ultima Rhoda, il suono affilatissimo della chitarra riporta inevitabilmente alla mente un capolavoro come Kerosene dei Big Black, senza parlare poi di tutti i rumori di oggetti in frantumi registrati in presa diretta che evidenziano quella matrice industrial/noise tanto cara ad Albini. Fra sonorità dal sapore schietto e lo-fi e atmosfere vagamente jazz e progressive, Tweez fluisce in maniera godibile e incisiva fungendo non solo da preludio a quello che sarà il capolavoro degli Slint, Spiderland, ma confermando anche la lungimiranza innata di un guru della musica alternativa come Steve Albini. (Valerio Veneruso)

puss* Galore – Dial M for Motherf*cker (Caroline, 1989)

Sboccati, irriverenti, folli, frastornanti, geniali. Che tra i puss* Galore, ricettacolo di talenti che hanno creato mondi sonori a cavallo tra il rock’n’roll più marcio e l’avanguardia più sfrontata e uno come Albini potesse esserci un’affinità elettiva sembrava quasi già scritto, al di là della nota utilitaristica con cui Jon Spencer, Neil Hagerty, Julia Cafritz e Bob Bert accreditavano il produttore di Dial M for Motherf*cker. «FATTO: Steve Albini ha lavorato di nuovo con la band perché pensava che per 150 dollari al giorno poteva valerne la pena».

I puss* Galore suonano come dei giovani e strafulminati Rolling Stones che fanno comunella con Cramps, Captain Beefheart e Einstürzende Neubauten. La loro domanda di senso è come avrebbe suonato Exile on Main Street se fosse stato registrato dopo il punk e la no wave. Rispondono alla grande rifacendo l’album degli Stones da cima a fondo ma meglio ancora fanno nei loro dischi: Dial M è persino più “orecchiabile” della meravigliosa baraonda di Right Now! e Understand Me o Dick Johnson sono pezzi irresistibili che sprizzano una rovinatissima coolness. La collaborazione tra Albini e Jon Spencer continuerà con Blues Explosion e anche con i primi dischi dei Boss Hog, quelli in cui suonava anche il compianto Charlie Ondras degli Unsane, lavori essenziali di quel blues-punk-lo-fi tipico della Grande Mela che farà scuola per tutti gli anni ‘90. (Tommaso Iannini)

Jesus Lizard– Goat (Touch and Go, 1991)

Steve Albini ha seguito tutta la carriera indipendente dei Jesus Lizard. Non sempre accreditato. Nel libretto di Goat il suo nome neppure compare. Non è nel suo stile darsi arie da Pigmalione. «Non sopporta proprio la parola “produttore”, anche se non ho mai visto chissà quale differenza tra quello che fa lui in studio e quello che fanno gli altri produttori» dice David Sims. Gli fa eco David Yow: «Dice sempre di essere un ingegnere del suono ma per me è un produttore. Ha un sacco di belle idee e lavora bene e in tempi rapidi».

Prima di creare i Jesus Lizard con il suo vecchio amico Yow, Sims è stato nei Rapeman con Steve (insieme un altro ex Scratch Acid, Rey Washam). Due brani che il bassista aveva composto per i Rapeman, SDBJ e 7 Vs. 8, sono diventati, con i loro riff spezzettati e i loro cambi di tempo, una pietra angolare per il noise-rock dei Jesus Lizard. È una sintonia naturale insomma, e il metodo basico di Albini in studio sembra ritagliato su misura per il quartetto – lo dimostrano anche il potentissimo Liar o l’intricato Down ma più di tutti probabilmente Goat, la vera chiave per la costruzione di un sound e di una scrittura personali che esaltano la cruda e allo stesso tempo forbita espressività dei Jesus Lizard, tutta la destrezza ritmica di Sims e del batterista Mac MacNelly, la pungente fantasia di Duane Denison alla chitarra e il canto ossessionante di Yow che raggiunge vette di autentica psicosi impossibili da cancellare. (Tommaso Iannini)

Superchunk – No Pocky For Kitty (Matador, 1991)

Pochi dischi come il secondo dei Superchuck possono dire di condividere con Surfer Rosa dei Pixies la stessa urgente esigenza di far collidere pop music e punk rock, anche se da una prospettiva radicalmente diversa. Privi della straniante devianza di Frank Black, i Superchunk del 1991 sono una macchina lanciata a tutta velocità verso il cuore della melodia pop, in un modo che li connetterà direttamente con il college rock dei primi ’90, anche tramite la Merge Records fondata qualche anno prima, proprio insieme ai Superchuck, da Laura Ballance e Mac McCaughan.

Ad inizio 1991 la band dovendo registrare il secondo album e ormai forte di una capillare esperienza live, vuole conservarne la ruvidità e l’immediatezza. Steve Albini viene individuato come l’uomo adatto, ma a causa di un’agenda già all’epoca molto fitta, le session di registrazione si risolveranno rapidamente in sole tre notti nell’aprile del ’91. L’aver dovuto lavorare in una situazione così stressata influirà con tutta evidenza sul prodotto finale, perché No Pocky For Kitty è un lavoro dall’energia inesauribile, dove i tempi veloci del punk si mangiano l’uno sull’altro, brano dopo brano, senza per questo cedere un grammo di melodia. Il disco uscì un mese dopo Nevermind dei Nirvana, ma senza esserne in qualche modo investito. I Superchunk sono rimasti sempre lontano dalle sirene del mainstream. (Antonello Comunale)

Steve Albini. Tutti gli album ai quali ha collaborato (o quasi) (4)

Uzeda – 4 (Touch and Go, 1995)

Se il rapporto tra Albini e lo Stivale viene, come di dovere, approfondito altrove in questo stesso articolo, quello tra il producer/engineer e gli Uzeda (e, per osmosi, tutta la scena indie rock siciliana, catanese in particolare) merita una propria parentesi. Foss’anche solo per la sintonia immediata e l’amicizia fraterna che ha segnato questo legame, artistico e soprattutto umano, iniziato nel 1993 e continuato fino all’ultimo (la lavorazione del film crowdfunded sulla band catanese, Do It Yourself, ormai pronto e si spera in uscita), certificato tra l’altro dagli Shellac stessi con la dedica del 7” Agostino.

Al di là delle tante prove su lunga distanza (anche a nome Bellini), come epitome di questa bellissima storia vogliamo scegliere le quattro tracce di questo EP, vuoi per l’innegabile valore storico (un gruppo italiano – no, siciliano! – che approda alla Touch and Go), vuoi per il modo in cui, ad ogni ascolto, l’eruzione vulcanica di Surrounded, Sleep Deeper, Right Seeds e Higher Than Me cancella tutto sotto una implacabile colata di magma, con la voce di Giovanna Cacciola a dispiegare un range di emozioni ineffabili, la chitarra di Agostino Tilotta a grattugiare spietatamente, e la sezione ritmica di Raffaele Gulisano e Davide Oliveri a disegnare geometrie impossibili di ritmi spezzati e dispari, che chiamare math rock o noise è soltanto riduttivo, trattandosi di calamità naturale concentrata in pochi minuti di musica. Che sia questa la collaborazione più riuscita e significativa di Albini, nell’aver trovato spiriti così affini dall’altra parte del mondo, all’ombra di un vulcano? (Antonio Pancamo Puglia)

Don Caballero – For Respect / American Don (Touch and Go, 1993; 2000)

Steve Albini produce il primo e il quarto album della band math rock di Pittsburgh. Il primo è del 1993, American Don del 2000. In questo lasso di tempo di sette anni, evolvono enormemente sia i Don Caballero, sia Albini e lo scarto tra i due prodotti non potrebbe essere più netto. For Respect ha la ruvidezza punk aggressive degli esordi e nei momenti più concitati, moltissimi durante tutto l’album, l’unione dei suoni crea un’unica onda d’urto di distorsione, con un motorik ritmico tipicamente albiniano, dove la cassa sembra che venga percossa un metro dietro al tuo orecchio. Nel 2000 di American Don, i Don Caballero sono passati per altri due dischi, 2 e What Burns Never Returns con la produzione per entrambi di Al Sutton, celebrando la morte del rock, in un modo sempre un po’ più spostato in direzione di un post jazz punk molto free form.

Albini è invece diventato il produttore più ricercato in ambito alternative rock, ma soprattutto ha registrato una quantità indefinita di album, affinando sia tecnica che strumentazione. American Don è il parto di una band dove ormai Ian Williams sa che può spingersi davvero più in la e dove la sezione ritmica gioca di corredo e non di assalto. In questo senso è affascinante ascoltare i suoni che Albini riesce a catturare, isolando ogni traccia come se fosse la più importante e dando al tempo stesso importanza a tutto. Uno delle sue produzioni migliori. (Antonello Comunale)

Palace Music – Arise Therefore (Palace, 1996)

Dopo la ventata di aria fresca e di apertura al mondo di Viva Last Blues, il quarto disco di Will Oldham, ultimo con il moniker di Palace Music, torna sul registro in chiave minore che lo ha reso noto ai più. Anche da un punto di vista testuale, nonché la generale aria dimessa che governa questo gruppo di canzoni, segna un po’ un ritorno all’atmosfera di Days In The Wake. La produzione di Albini rovescia completamente il sound del precedente album, che era il prodotto di una band vera e propria, tanto quanto questo è un disco solista tout-court con l’ausilio spartano di una drum machine, della chitarra suonata dal fratello e di qualche sparuta nota di piano offerta da David Grubbs.

Nella maggior parte delle canzoni, la comunicabilità di questo disco è ridotta all’osso, complice la modalità di Oldham di declamare a mezz’aria siparietti esistenzialisti senza alcuna apparente voglia di trovare un pubblico. Il tema principale è del resto l’impermanenza di tutte le cose e il tempo che passa: “How could one ever think anything’s permanent? / How can you sleep when I’m going away? / I haven’t a reason left in my head / To not go away”. (Antonello Comunale)

Songs: Ohia – Magnolia Electric Co. (Secretly Canadian, 2003)

I Songs: Ohia erano la creatura musicale di Jason Molina, cantautore appartenente alla nobile stirpe dei cantori sconfitti d’America, tra le cui fila possiamo annoverare le anime affini di Vic Chesnutt, Elliott Smith e David Berman. Tutti e tre suicidi, a differenza di Molina che invece è morto per complicazioni fisiche dovute all’alcool. Leggi: ha bevuto fino alla morte. Può sembrare una differenza da poco, ma non lo è, perché per Molina la sconfitta – nella vita e nella musica – non era inevitabile.

Il segreto di Magnolia Electric Co. è proprio quello di mantenersi in equilibrio tra sconfitta e speranza: Ci proverò/ Nessuno ci prova mai veramente/ Me ne andrò/ Ma non per sempre canta nell’incredibile brano di apertura Farewell Transmission, manifesto di un nuovo sound che abbandona il folk minimalista del passato per un country rock più neilyounghiano, fatto di distorsione, slide guitar e pedal steel.

Da questo punto di vista Magnolia Electric Co. costituisce un nuovo inizio, tanto che il titolo dell’album diventerà anche il nuovo moniker di Molina, un disco che comincia con un addio e finisce con un invito a resistere (Hold On Magnolia) ancora oggi tra i più strazianti che siano mai stati incisi. Quando l’ascolti ha scritto A. Petrusich elogiando la produzione di Albini: “non c’è nulla di mezzo, non c’è distanza tra me, tra qualsiasi ascoltatore, ovunque, e Molina. Per questo motivo, sembra un portale verso un’altra sfera, un’ancora di salvezza, una mano da stringere nella notte”. (Fabrizio De Palma)

Low –Things We Lost In The Fire (Kranky, 2001)

Come tutti sanno e come disse anche Mimi Parker qualche tempo fa in occasione del ventennale di Things We Lost In The Fire, Steve Albini era un maestro nel catturare il suono naturale, ed era il quid che portava ai musicisti che volevano lavorare con lui. In studio era come un Cartier-Bresson del suono, per cui la scelta del set-up adatto con cui restituire dinamica ambientale e prossimità agli strumenti e alle voci – la sensazione per chi ascolta di essere presente in quella stessa stanza – diventava il proverbiale “momento decisivo”. Forse questa immagine gli sarebbe piaciuta, intanto era sì il paladino dell’intransigenza ma aveva una libertà mentale invidiabile quando si parlava di musica. Lo racconta così Alan Sparhawk: «Quello che sentivamo dire in giro era questo: “Non provate a fare cose strane con Steve. Tutto deve essere vero, tutto deve essere punk”. E invece no, si entusiasmava all’idea di fare cose diverse e di sperimentare».

E infatti i Low che avevano già alle spalle un capolavoro che ha definito un genere come I Could Live In Hope e con Steve avevano già realizzato l’incantevole Secret Name, in Things We Lost In The Fire provano diverse soluzioni, contano sul riverbero naturale degli Electrical Audio – dove il lavoro è stato iniziato e poi concluso dopo una parentesi con Tom Herbers a Minneapolis – per armonizzarlo con il silenzio “attivo” all’opera nei loro dischi precedenti, arricchiscono di strumenti nuovi i loro arrangiamenti austeri, sempre di una grazia straniante e cristallina, e creano uno dei loro lavori più ricchi di quell’ineffabile fascino che abbonda in ogni loro disco – e il brano finale, In Metal, da solo vale più di mille spiegazioni. (Tommaso Iannini)

Steve Albini. Tutti gli album ai quali ha collaborato (o quasi) (5)

Dirty Three – Ocean Songs (Touch and Go, 1998)

«Steve Albini ma ha dato un consiglio per la vita quando abbiamo registrato insieme a lui Ocean Songs nel 1997. Eravamo persi in mezzo alle registrazioni e stavamo per arrenderci. Volevamo fare un album tranquillo ma eravamo tutto tranne che tranquilli. Steve ha capito la nostra battaglia creativa. E ci ha detto: “Non dimenticate con che intenzioni siete venuti qui”. Se esiste questo disco lo dobbiamo a quel suo consiglio in un momento in cui eravamo pieni di dubbi e di fragilità. E a quel suo consiglio penso spesso quando lavoro in studio». Warren Ellis lo ha scritto sulla sua pagina Instagram quando ha saputo della scomparsa di Steve.

Al di là del tributo commosso, il segreto di un engineer(producer) al servizio delle band come si voleva raffigurare Albini è proprio questo: capire quella battaglia interna a ogni musicista che è spesso la creatività. Sulla fanzine Forced Exposure nel 1991 con ironia sprezzante scriveva di non volersi prendere la responsabilità per le scelte o gli errori di chi lo ingaggiava – motivo per cui preferiva non essere addirittura citato nei crediti. La realtà lo racconta invece prodigo di consigli utili e di supporto a un’idea che ha portato i Dirty Three a lasciare – curiosamente – proprio i momenti rumorosi di cui abbondava il precedente Horse Stories per la musica da camera elettrificata di questo capolavoro del post-rock, capace di trasportarti nell’alveo fantastico dei suoi paesaggi oceanici con le note del violino di Ellis restituite in tutta la loro naturale e finissima bellezza, ora stridente, ora dolcissima. (Tommaso Iannini)

Godspeed You! Black Emperor – Yanqui U.X.O. (Constellation, 2002)

Non esistono dischi brutti dei GY!BE. Yanqui U.X.O., loro terzo lavoro lungo, non è neppure lontanamente etichettabile come mediocre o come lavoro di transizione, come pure qualcuno ebbe a dire all’epoca dell’uscita. Dopo due monoliti monstre come F♯ A♯ ∞ e Lift Your Skinny Fists Like Antennas To Heaven per il loro terzo disco si accomodano agli Electrical Audio Studios di Steve Albini e spostano il punto esclamativo al centro del nome. In mancanza di parole, la portata politica è tutta veicolata dall’artwork, che raffigura in copertina (si dice…) un velivolo dell’aeronautica statunitense nell’atto di sganciare un ordigno durante la guerra del Kosovo.

Dentro, un diagrama flow chart mette in correlazione le principali major label discografiche con quelle dell’industria delle armi. La portata della musica dei canadesi rimane immutata nel disegnare emozionanti saliscendi forte-piano dall’afflato cinematografico. Anzi, forse stavolta si spingono un po’ più in là nella prassi di far convivere musica da camera e musica da film, come nell’incredibile parte centrale di Rockets fall on Rocket Falls. Rispetto al passato manca qualunque segno di presenza umana nelle registrazioni, che non accolgono voci campionate o suoni sul campo. In questi termini Yanqui è uno dei loro lavori più scuri, se non il più scuro, privo com’è di qualunque catarsi e dove anche l’epica ha il taglio sinistro del canto del cigno (della razza umana, ovviamente….). (Antonello Comunale)

Nina Nastasia – The Blackened Air (Touch and Go, 2002)

Interrogato qualche anno fa su quali fossero le sue canzoni preferite, Steve Albini tirò fuori una lista di 20 brani, concepita con una sola regola, ovvero quella di escludere materiale su cui avesse lavorato. Infranse la regola, con una sola canzone, This Is What It Is,inclusa nel secondo album di Nina Nastasia, da lui stesso prodotto, come il primo Dogs e poi come tutti gli altri.

The Blackened Air è un disco di folk austero, ma non dimesso, anzi molto sicuro dei propri mezzi. L’uso espanso di archi e fiati regala una veste di magniloquenza neogotica alle dimesse canzoni in chiave minore di Dogs. La Nastasia trova in questo disco, una felice via di mezzo tra l’incubo femminista di Geek the Girl di Lisa Germano e le marcette salmodianti tristi verità di Leonard Cohen. Una formula che di fatto ripeterà anche nei lavori successivi, ma non con questa chiarezza di mezzi. Molti classici del suo repertorio infatti arrivano da questo disco: le magnifica e “germanicheI go With Him e Ocean, la coheniana Ugly Face, la ballad mid-country rock tipo Sheryl Crow di Little Angel. Un disco e un’artista francamente da riscoprire. (Antonello Comunale)

Shannon Wright – Over The Sun (Quarterstick, 2004)

La musicista di Jacksonville (Florida) e Steve Albini avevano già incrociato le proprie strade in passato, su parte del repertorio dei precedenti Maps Of Tacit e Dyed In The Wool, ma per questo quarto album, la Wright si adopera per avere Albini in cabina di regia per tutto il processo di registrazione. Il risultato finale è una sorta di Rid Of Me parte seconda, e non solo per l’artwork in bianco e nero. Albini registra questo disco in maniera pressoché identica a quello della Harvey, non ultimo il taglio delle chitarre e della voce, ma soprattutto di cassa e rullante che sono identici.

Si converrà che il sound asciutto e greve della cassa è il suo trademark, ma stavolta la qualità del suono è straordinariamente simile. Tutto questo forse fa perdere parte del lirismo sinistro che contraddistingue la Wright, nei suoi frangenti di chamber music al piano, che torna propriamente solo in Avalanche mentre tutto il resto del disco è dedicato al post punk di scuola Quaterstick/Touch & Go con cui si era fatta notare fin dagli esordi. In questo, Over The Sun si conferma uno dei suoi lavori più ruvidi e meno amichevoli, ma non meno ispirati. (Antonello Comunale)

Neurosis – Times Of Grace (Relapse, 1999)

Un matrimonio deciso all’inferno… o in paradiso, dipende dai punti di vista. Di sicuro il sodalizio produttivo tra i Neurosis e Steve Albini, che inizia con questo sesto album della band di Oakland è di quelli destinati a durare e rinnovarsi. Non è un mistero per nessuno che esistano fondamentalmente due Neurosis: quelli prima di Times Of Grace e quelli dopo. Quelli prima sono un crossover di leghe metalliche ed estreme, ma quelli di dopo sono altrettanto visionari e pericolosi.

Albini riduce la gradazione metal per dare una coloritura più sludge-noise al sound, dando risvolti inediti al suono della band californiana. La frangia oltranzista dei fan della prima ora non apprezzò e giudicò con sufficienza l’album. Ma quale album? Esistono di fatto tre modalità di ascolto di questo lavoro. Da un lato la forma standard, poi la versione ambient, denominata solo Grace, a firma Tribes Of Neurot, la sigla con cui Kelly e Von Till pubblicano le cose più sperimentali, e infine la versione definitiva, che si ottiene dalla sovrapposizione di Times of Grace e Grace. Una trovata simile a quella dei Flaming Lips di Zaireeka, che in effetti regala un ascolto del tutto nuovo ai brani del disco. Su YouTube è possibile ascoltare la versione completa. Provare per credere. (Antonello Comunale)

Sunn O))) – Life Metal (Southern Lord, 2019)

Chi l’avrebbe mai detto che dall’incontro fra Steve Albini e i Sunn O))) sarebbe uscito un lavoro “luminoso”? Ebbene si, fatta eccezione per qualche riff abissale qua e là, Life Metal è forse il disco più speranzoso del fantomatico progetto capitanato da Stephen O’Malley. Grazie all’inserimento di elementi quali la voce della compositrice islandese Hildur Guðnadóttir (nell’imponente pezzo d’apertura Between Sleipnir’s Breaths) o l’organo suonato da Anthony Pateras in Troubled Air, l’album si distingue particolarmente da tutta la loro produzione precedente facendo intravedere qualche spiraglio di luce. In esso infatti, la dilatazione sonora tende a trasformarsi per creare delle sorte di squarci in quel sound of wall tipico dei Sunn O))).

Pubblicata nel 2019 per la Southern Lord – etichetta fondata dagli stessi O’Malley e Greg Anderson –, quest’opera monumentale vanta di essere stato realizzato interamente in maniera analogica, senza nessun intervento di tipo digitale in nessuna fase della sua produzione: una scelta facilmente riconducibile al consolidato modus operandi di Albini. Questo non è però l’unico frutto della sinergia tra il frontman dei Big Black e i Sunn O))), sempre del 2019 è infatti Pyroclasts, il fratello gemello di Life Metal poiché formato in gran parte da improvvisazioni drone eseguite durante la registrazione dell’album antecedente. (Valerio Veneruso)
Steve Albini. Tutti gli album ai quali ha collaborato (o quasi) (6)

Something’s On My Back, Can’t Turn To See. I supercult

OXBOW – Serenade In Red (SST, 1996)

I brani di questo disco hanno titoli come 3 O’ Clock, La Luna, Babydoll, The Killer. La foto di copertina è di Richard Kern e nel booklet ci sono foto di motel con la scritta “San Francisco” in un neon sfocato. Quarto disco degli Oxbow, Serenande in Red è per la band californiana, la seconda produzione consecutiva di Steve Albini dopo Let Me Be A Woman. Distribuito dapprima per la label tedesca Crippled Dick Hot Wax, all’epoca – il 1996 – specializzata in soundtrack e(r)xotiche e poi per la SST. Tutto questo dovrebbe dare i contorni di un prodotto dall’appeal commerciale praticamente nullo ed infatti pochi lavori come questo, a metà anni ’90, esemplificano l’underground più oscuro e pericoloso. Anche la presenza scenica della band è sinistra, capeggiata da Eugene S. Robinson, un omone nero alto due metri, specializzato in arti marziali e solito esibirsi coperto solo da un paio di mutande. La musica segue di pari passo: una versione brutalizzata e assassina dei Pere Ubu, calati in una notte afosa dove il noir e il blues sono la stessa cosa, ovvero il rantolo finale di una vittima dimenticata in un vicolo. A suggello del disco, il featuring di Marianne Faithfull che dona un po’ di evocativo lirismo, tra urla, schianti e suono di ossa che si spezzano. (Antonello Comunale)

Silkworm – Firewater (Matador, 1996)

I Silkworm sono la classica indie-rock band di culto. Destinati a vagare nell’anonimato, pur avendo grandi canzoni al loro arco, una discreta discografia e una poetica ben definita, basata su un approccio punk, perfettamente in linea con la produzione di Albini, che non a caso ha collaborato con loro a lungo. Cinici, depressi e autoironici i Silkworm non sognavano di diventare delle rockstar, al massimo cercavano di sopravvivere alla giornata. Firewater è il loro disco migliore, al cui interno è contenuta Nerves che potrebbe essere una sorta di apocrifo dei Nirvana dopo un frontale coi Pavement o qualcosa alla For Squirrels – qualcuno se li ricorda? – ma più sghembo.

Lo stesso vale per buona parte del disco: 16 tracce per un’ora di alternative rock scomposto, arricchito di assoli wannabe J Mascis. Musica claudicante che incespica su sé stessa, ma poi si riprende con brevi lampi di lucidità, instabile e confusa tanto quanto le storie che racconta. Il disco infatti è una sorta di manuale del buon ubriaco, con testi da Bukowski adolescente che si chiede come si faccia a mischiare il gin con la birra. A salvarli dal pozzo della solitudine c’è la loro amicizia, altro punto fermo della loro poetica. Purtroppo il batterista M. Dahlquist morirà in un incidente d’auto nel 2005. Tre anni dopo, al festival per il 25° anniversario della Touch And Go, i due membri superstiti Midgett e Cohen suoneranno una toccante versione di LR72: Let me drink and weep / And see that a friendship was here. (Fabrizio De Palma)

Jawbreaker – 24 Hour Revenge Therapy (Tupelo, 1994)

Per un breve periodo, all’inizio degli anni ’90, i Jawbreaker – nelle loro stesse parole, “la piccola band che avrebbe potuto, ma che probabilmente avrebbe preferito non farlo” – sono stati una delle band più importanti della scena punk della bay area, la stessa da cui sarebbero poi emersi i Green Day. A differenza di molti altri gruppi punk del periodo, i Jawbreaker erano una punk band anomala, incline alla melodia e composta da tre letterati che non disdegnavano la poesia, l’introspezione e il romanticismo, anzi li alimentavano con testi più intelligenti e colti della media.

24 Hour Revenge Therapy è il loro apice creativo, con i primi tre brani che parlano di barche antropomorfe lontane dal mare, giorni di pioggia che sgocciolano meraviglia giovanile e battibecchi interni all’industria musicale e alla sottocultura punk, piena di regole, a cui il gruppo non aveva intenzione di aderire: “1, 2, 3, 4, Who’s Punk? What’s The Score?” (Boxcar). Il resto è un collage di solitudini e relazioni spezzate tenute insieme con lo sputo e la colla di basso e batteria, il tutto registrato live in soli tre giorni presso gli studi di Albini, il cui nome non figurerà nei crediti originali del disco, sostituito da quello del suo gatto Fluss. Alcuni brani saranno poi riregistrati da Billy Anderson in una seconda sessione della durata di un giorno: altri tempi, altre velocità, altra qualità. (Fabrizio De Palma)

Bitch Magnet – Ben Hur (Glitterhouse, 1989)

«Tutto quello che ho fatto è stato aiutare tre scemi del college a remixare i loro lavoretti e così, tutto a un tratto, ero diventato il loro produttore! Ascoltare questo disco di scarsa intelligenza è la cosa più stupida che potete fare…». Steve, Steve… noi lo amiamo tutti ma stavolta non dategli ascolto. Intanto per lavorare con lui dovevi saperne cogliere – e apprezzare – l’ironia. E non essere permaloso. Ai Bitch Magnet è persino andata bene (leggetevi cosa ha detto una volta sui Pixies…) e tutto sommato non dovevano essergli troppo indigesti se dopo l’EP di debutto Star Booty ha appunto lavorato con uno pseudonimo anche sul loro secondo nonché ultimo LP – che, parole sue, «non era proprio una merda».

No, non lo è affatto, Ben Hur; se mi si passa il paragone può essere lo Spiderland dei Bitch Magnet, anche se di lui si parla molto meno. Come per gli Slint la parabola dei Bitch Magnet non ha fase discendente perché il gruppo si scioglie al picco della sua creatività. Dopo aver dato spettacolo con il potente e sagace Umber, i Bitch Magnet coronano una delle più sapienti evoluzioni del suono punk americano sovrapponendo in cataclismiche armonie le sue derivazioni presenti – hardcore, emo, noise, grunge – e future – post e math rock captati in anticipo su quasi tutte le band di pari età. Tutto scritto nei dieci minuti di Dragoon e nei dieci pezzi di Ben Hur; sei dei quali registrati con il nostro Albini. (Tommaso Iannini)

Tad – Salt Lick (Sub Pop, 1990)

L’attitudine hardcore che lo ha contraddistinto già dalle sue primissime produzioni non poteva che portare Steve Albini a collaborare professionalmente anche con formazioni più improntate verso sonorità particolarmente pesanti e oscure. È questo il caso dei Tad che nel 1990, sotto Sub Pop Records, approfittano della sapienza tecnica del frontman degli Shellac per dare alle stampe Salt Lick, il loro secondo EP che verrà poi accorpato al precedente God’s Balls (prodotto da Jack Endino) in una compilation unica. Alfieri del grunge, e per questo beniamini di Kurt Cobain e soci, i Tad sono sempre stati considerati i cattivoni della cricca di Seattle e loro non si sono mai interessati molto nello smentire questa diceria, anzi: dell’apparire brutti, sporchi e aggressivi ne hanno fatto un vero e proprio marchio di fabbrica.

Con una premessa simile Albini non poteva fare altro che mettere in campo tutte le sue abilità tecniche per restituire quello che per molti è ritenuto il miglior disco della band statunitense. Fra canzoni sature di furia dal sapore metallico (Axe to Grind, Hibernation, Potlatch) e pezzi apparentemente meno impulsivi (High on the Hog, Wood Goblins, Glue Machine) Salt Lick sembra essere il frutto di una notte di sesso estremo tra i Ministry e i Killing Joke: un album violento e ossessivo nel quale basso, chitarre e batteria pestano in puro spirito hardcore, o meglio, in pieno stile Albini. (Valerio Veneruso)

Head Of David – Dustbowl (Blast First, 1988)

Probabilmente quello degli Head Of David è un nome che dirà poco ai non avvezzi, ma il quartetto inglese fu uno dei prime-mover dell’ambito estremo partorito dalla cosiddetta Black Country inglese, ovvero la zona di Birmingham il cui nomignolo viene proprio dalla patina nera dell’inquinamento industriale. Se il pensiero è andato a Napalm Death e Godflesh, beh, avete centrato la questione dato che il bassista David Cochrane (poi God, Terminal Cheesecake, in line-up sin dagli esordi) e Justin Broadrick (Napalm Death, Godflesh, Jesu, alla batteria) in quest’album, erano della partita. Dustbowl, secondo album dopo l’altrettanto ottimo esordio LP, si poneva al crinale tra industrial-metal e noise-rock ed era un bel concentrato di ossessività ed efferatezze sonore che, col senno di poi, è al contempo il punto di arrivo di una situazione socio-economica devastante e il punto di partenza (uno dei, in realtà) per alcune delle musiche più destabilizzanti e violente di sempre. Che Dog Day Sunrise sia stata poi coverizzata dai Fear Factory di Demanufacture è un po’ come la chiusura di un cerchio. (Stefano Pifferi)

Steve Albini. Tutti gli album ai quali ha collaborato (o quasi) (7)

Tar – Jackson (Amphetamine Reptile, 1991)

Una delle formazioni più sottovalutate del giro noise-rock primigenio ha in Steve Albini più di un produttore o ingegnere del suono, considerando che lo troviamo dietro al desk di controllo di buona parte della discografia della band di Chicago. E probabilmente, più che la vicinanza geografica, è quella ideologica, la maniera di intendere la musica e il suono a unirli. Sia come sia nel novero dei pochi ma tutti eccellenti album della band, scegliamo Jackson perché contiene una delle canzoni da personale podio del noise-rock (le altre sono Scrape degli Unsane e Shaking dei Cows), Short Trades, ovvero il punto di incontro tra gli Unsane e i Beastie Boys, tra la furia chitarristica dei primi e il groove dei secondi.

E anche perché è tutto l’album a mantenere sempre alta la tensione chitarristica, quasi parossistica in certi passaggi e limitrofa a una attitudine quasi da post-hardcore, grazie anche al fatto che i Tar usavano strumenti customizzati in alluminio. Se avete presente i plettri di metallo di Steve Albini, beh, questo è l’ennesimo punto di contatto. (Stefano Pifferi)

Zeni Geva – Desire For Agony (Alternative Tentacles, 1993)

Quando Zeni Geva arrivò in occidente col tramite di una lungimirante Alternative Tentacles, di nippo-noise (sia noise puro che declinato in forme rock) noi ne sapevamo poco o nulla. Non che Steve Albini, che già trafficava col Sol Levante e col trio di KK Null, sia stato l’apripista di un mondo sonoro così (apparentemente) distante, ma di sicuro ne è stato elemento cardine. Sia come sia, Desire For Agony fu, musicalmente, davvero un calcio in faccia e, ideologicamente, qualcosa di totalmente inatteso, quasi uno shock culturale: nonostante le succitate credenziali che ne garantivano la qualità c’era davvero in un mondo così lontano chi suonava le stesse cose che ascoltavamo?

La risposta è sì e la chiosa, dopo aver ascoltato quest’album, era che le suonavano anche meglio. Ascoltate la marzialità aliena di Stigma, mazzate di chitarra e passaggi intermedi stranianti, qualcosa che si avvicini alla colonna sonora della vita di Mishima, oppure quella specie di palude sludge che è Heathen Blood, tutta rigore e compattezza sonica, o la materializzazione dell’incubo Godzilla che è Disgraceland. Zeni Geva era il vero rovescio rumoroso e malato del Giappone più nascosto, ben sintetizzato dalla bellissima copertina. (Stefano Pifferi)

Dazzling Killmen – Dig Out The Switch (Intellectual Convulsion, 1992)

Nel 1992 vedono la luce, tra gli altri dischi registrati da Albini, Nai-Ha degli Zeni Geva, Liar dei Jesus Lizard, l’omonimo dei Jon Spencer Blues Explosion, Punishment Room dei Distorted Pony e l’esordio di un quartetto di studenti di Saint Louis, i Dazzling Killmen. Tra arty math-rock e devasto sonico in puro stile noise-rock, Dig Out The Switch sembra una seduta psicanalitica in overdrive in cui Nick Sakes vomita le sue fisime tra efferatezze sonore e soluzioni tanto violente quanto ricercate.

Tensione post-hardcore, strutture mobili, ritmiche varie, voce al vetriolo fanno di questo disco un purtroppo semi-dimenticato classico anticipatore di tanto che verrà (ascoltare la suite conclusiva Code Blue per averne una straniante prova). Ah, dopo la breve vita dei Dazzling Killmen, i membri hanno fondato o militato, tra le altre, in band come Colossamite, Laddio Bolocko, You Fantastic, Brise Glace. Quando si dice l’origine di tanto altro, eh? (Non bastasse, il disco è prodotto da un certo Jeff Tweedy…) (Stefano Pifferi)

Silverfish – Fat Axl (Wiiija, 1990)

Per essere una riot grrl nei 90s non serviva essere necessariamente in una riot grrl band come Bikini Kill, Babes In Toyland o, di qua dall’oceano, Huggy Bear. Lo dimostra benissimo Lesley Rankine, origini scozzesi e vita vissuta prevalentemente a Londra, alla guida dei Silverfish, combo classico di inizi 90s dedito a un noise-rock a tinte industrial indemoniato e feroce in cui la ragazza dava fondo alle sue corde vocali impastate nell’acido.

Fat Axl, titolo invero profetico visto con gli occhi di oggi, è il primo album lungo del quartetto di stanza a Camden – a completare la formazione troviamo alla chitarra Fuzz (Andrew Duprey), al basso Chris (Mowforth) e alla batteria Stu (Stuart Watson) – ed è un perfetto esempio delle traiettorie che passavano agilmente di qua e di là dall’oceano, trovando terreno fertile nella scena della cosiddetta Camden Lurch (in mezzo a vario titolo Headcleaner, Th’ Faith Healers, Sun Carriage, Milk, ecc.), ovvero proto-grunge, noise-rock, attitudine punk e altissimo tasso di integrità, tutto condensato nel verso “Hips, Lips, tit*, Power”, ben presto divenuto slogan a 360 gradi. (Stefano Pifferi)

Johnboy – Claim Dedications (Trance Syndicate, 1994)

Non solo di noise newyorchese/chicagoano vive la produzione di Steve Albini. Lo dimostra questo Claim Dedications, incursione nel noise-rock ad alto tasso psichedelico e acido made in Trance Syndicate, label che significa Austin, Texas e pure King Coffey, ovvero Butthole Surfers. Il secondo, e purtroppo ultimo disco di questo trio (Barry Stone, chitarra e voce; Tony Bice, basso e voce; Jason Meade, batteria) è un bel concentrato di noise in perenne tensione e slanci ossessivi.

Claim Dedications arrivava dopo l’ottimo esordio Pistolswing e dev’essere stato una gioia da produrre per Steve Albini, visto che tra chitarre sferraglianti e interplay ritmico ruvido e ossessivo, passaggi reiterati e cantato urlato/declamato, il materiale grezzo era la vera cup of tea del nostro. Ovviamente, come nella miglior tradizione di certe band talentuose del sottobosco, il trio implose appena pubblicato l’album e sparì dalla circolazione. (Stefano Pifferi)

Bodychoke – Five Prostitutes (Freek, 1996)

Probabilmente gli inglesi Bodychoke sono una di quelle band poco ascrivibili all’“Albini sound”. Nati come side-project allargato dell’ostico duo power electronics Sutcliffe Jugend, il quintetto pur mantenendone la crudezza delle tematiche trattate (sofferenza, odio, perversioni) virava totalmente verso un noise-rock mai eccessivo quanto declinato in forme arty, con incursioni nell’industrial e addirittura verso certo post-rock ambientale. Questo Five Prostitutes, dedicato alle prostitute uccise da Jack lo squartatore, è un mondo a parte, come fosse stato concepito da dei Neurosis minimali o da dei God Machine più cupi e negativi.

Melodici e rumorosi, disperati e romantici, drammatici e iconoclasti, i cinque Bodychoke (ai due fondatori Kevin Tomkins e Paul Taylor, entrambi a chitarre e voci, si uniscono Gary Kean al basso, Jamie Hitchens alla batteria e Mike Alexander al violoncello) sono una esperienza da provare una volta nella vita se si ama quella struggente disperazione insita nel noise-rock, ma depurata della coltre di chitarre al rosso e di cui la splendida Skinflick è quasi un manifesto. (Stefano Pifferi)

Melt Banana – Scratch Or Stitch (Meldac / Skin Graft, 1996)

Tra le collaborazioni più folli di Steve Albini sicuramente quella con i Melt-Banana merita una menzione speciale. Incontratisi in un primo momento nel 1994 per la registrazione del debutto della band, Speak Squeak Creak (la cui produzione fu affidata però a KK Null), il loro sodalizio vero e proprio lo si ha nel 1995 per la realizzazione di Scratch Or Stitch. Opera terza nella carriera dell’iconico gruppo nipponico, l’album vede il nostro Albini lavorare non solo fianco a fianco di sua Santità Jim O’Rourke (incaricato per l’occasione di registrare il tutto) ma anche stringere sempre più i rapporti con l’etichetta Skin Graft Records.

Costituito da ben ventidue brani, per una durata complessiva di 31 minuti e 24 secondi, l’album investe l’ascoltatore come se fosse un treno pilotato a tutta velocità da una banda di macchinisti sotto acido: un flusso inarrestabile di schiaffi nelle orecchie alimentato dalle urla ossessive di Yasuko O. e dai ritmi sincopati degli altri membri. Da Sick Zip Everywhere (il cui video passò addirittura su MTV) a Plot In A Pot e IGUANA In Trouble, sono diversi i brani divenuti iconici proprio per la loro irruenza schizofrenica. Considerato il loro lavoro discografico più importante, Scratch or Stitch ha riscosso anche un certo successo negli Stati Uniti dove i quattro musicisti hanno avuto l’occasione di affiancare in tour nientedimeno che i Mr. Bungle. (Valerio Veneruso)
Steve Albini. Tutti gli album ai quali ha collaborato (o quasi) (8)

Excellent Italian Greyhound(s). Steve Albini e l’Italia

Che la produzione di Steve Albini abbia rappresentato un sogno possibile anche per molte band al di fuori del circuito anglofono, è comprovato dalle tariffe accessibilissime che ha continuato ad applicare per tutta la durata della sua attività, pur essendo stato consacrato da dischi come In Utero, Surfer Rosa, Rid Of Me e tantissimi altri.

Albini ripeteva spesso, con quell’umiltà che gli era connaturata, di essersi ritrovato a registrare band fantastiche per puro caso, per il semplice fatto di aver risposto alle telefonate giuste, come a voler lasciare intendere che il successo planetario di parecchi dischi a cui aveva lavorato non fosse stato frutto di un calcolo, ma pura e semplice fortuna.

D’altronde, le scelte artistiche compiute nel corso della sua carriera di sound engineer sono state il più delle volte dichiaratamente anti-establishment, votate a “produrre” (le virgolette restano doverose, visto come la pensava in merito), tutto ciò che per qualche motivo gli sembrasse meritevole e genuino, senza stare troppo a badare che si trattasse sempre e comunque di star globali. Anzi.

A testimoniare tutto quanto sopra, anche una manciata di gruppi italiani, che hanno potuto contare su di lui per registrare i loro dischi, coronando di fatto la fantasia di qualunque musicista periferico cresciuto a cavallo degli anni ’90.

Doveroso cominciare dagli Uzeda, che forse anche grazie alla sua generosa intercessione hanno raggiunto un meritatissimo successo internazionale, e con i quali si è creato, nel corso degli anni, un rapporto di sincera amicizia, che ha portato Albini ad esporsi più volte con elogi smisurati per quella che veniva spesso additata come una delle sue band preferite, arrivando persino a condividere il palco con loro in più occasioni.

Dopo la pubblicazione del loro primo lavoro, Out Of Colours, e grazie ad amicizie in comune, la formazione composta da Giovanna Cacciola alla voce, Raffaele Gulisanoal basso, Davide Oliverialla batteria, Agostino Tilotta e Giovanni Nicosia alle chitarre (quest’ultimo lascerà poi la band nel ‘95), riuscì a far volare Albini fino a Catania per la registrazione del loro secondo disco, Waters.

La lavorazione dell’album coincise più o meno con lo stesso periodo in cui, dall’altra parte dell’Oceano, i già citatiNirvana registravano In Utero, ma Waters, più che ai diktat del grunge, pare modellarsi su ben altri stilemi: il post-punk, l’hardcore, la no-wave e il noise. Guarda ai Sonic Youth, a Lydia Lunch, alla New York di fine anni ’80, ben più che alla Seattle primi anni ’90. Il disco è uno spartiacque, che spalanca agli Uzeda le porte della BBC con la registrazione, nel 1994, delle mitiche Peel Sessions (stavolta senza Albini, che però sarebbe tornato al loro fianco immediatamente dopo).

Nel ‘95 è la volta dell’ep 4, undici minuti di noise-rock spietato che pone le basi per il lavoro del 1998: Different Section Wires, registrato in Francia nei Black Box Studios, ancora una volta insieme all’ormai fidatoSteve Albini. Qui le carte vengono nuovamente sparigliate: il caos diventa, se possibile, essenzialità e minimalismo; il suono, tagliente e rigorosissimo, viene ricondotto a solide geometrie math-rock, mentre la voce di Giovanna si scurisce, colorandosi di ferocia alternata a gelido distacco.

Dopo il tour, la band decide di prendersi una lunga pausa (pur senza mai sciogliersi formalmente). Negli otto anni seguenti, Tilotta e Cacciola formano iBelliniinsieme al batteristaDamon Che Fitzgerald, fondatore deiDon Caballero (che sarà sostituito più avanti da Alexis Fleisig dei Soulside), e pubblicano ben quattro album, tutti registrati, manco a dirlo, con l’inseparabile Albini: Snowing Sun, Small Stones, The Precious Prize of Gravity e Before The Day Has Gone.

Nel frattempo, Davide Oliveri e Raffaele Gulisano iniziano una lunga collaborazione insieme a Gianna Nannini, con la quale comporranno anche l’album Aria, del 2002. La loro conoscenza era iniziata anni prima per il desiderio di quest’ultima di registrare con Steve Albini, un sogno mai realizzato perché – secondo quanto rivelato dalla stessa Nannini al Corriere della Sera – nonostante varie peripezie per incontrarlo a Chicago, alla fine lui l’aveva liquidata dicendo: “io non sono bravo a registrare se uno non ha la band”.

Ma torniamo agli Uzeda, perché il 2006 segna il loro ritornoed è la volta di Stella: altra straordinaria lezione di stile per il quartetto catanese, ancora una volta con Steve Albini e l’etichetta Touch And Go a sugellare un’attitudine sempre più internazionale, anzi borderless, perché la musica degli Uzeda è sempre più qualcosa di inaudito. È follia ordinata, è anarchia e rigore, è suono livido e viscerale, ma anche cerebrale.

L’ultimo capitolo del fortunato sodalizio ha un nome che è tutto un programma: Quocumque Jeceris Stabit (traducibile più o meno con “Ovunque lo lancerai, resterà in piedi”). Viene registrato a Verona nel gennaio del 2019, presso gli studi Sotto il Mare Recording Studiosdi Luca Tacconi, in occasione di una masterclass di Steve Albini organizzata da Sound by Side. E così, la registrazione dell’ultimo capitolo della collaborazione tra i catanesi e l’ingegnere del suono di Chicago, diventa – secondo noi assai significativamente – anche un momento di condivisione e di scambio con tanti addetti ai lavori, accorsi in massa per ammirare all’opera il mito di qualunque aspirante produttore.

Dopo la dolorosa notizia della sua scomparsa, gli Uzeda hanno postato sui social poche ma sentitissime parole:

Miss you forever. Love you forever. In memory of a great man, a great friend, a great musician

Com’è noto, la lista degli italiani che hanno lavorato con Steve Albini non finisce qui. Gli Zu, formazione romana composta da Massimo Pupillo, Jacopo Battaglia (che avrebbe lasciato la formazione nel 2011) e Luca Mai, pubblicano nel 2002 Igneo, un condensato di punk, math e jazz-core. Registrato e missato agli Electrical Audio di Chicago, dal 12 al 15 dicembre del 2001 (tre-quattro giorni di sessioni era la durata ideale per la realizzazione di un disco secondo il metodo Albini: “If a record takes more than a week to make, somebody’s f*ckin’ up”, il suo celebre motto), è considerato uno dei loro lavori più importanti: sintesi perfetta della sperimentazione timbrica cui il trio si è votato sin dagli esordi, qui con una visione ancora più compiuta e granitica. Queste le loro parole dedicate a Steve Albini:

We see Steve Albini surrounded by a worldwide huge wave of love and gratitude. He did define a sound, an attitude and an era. Humbly all we can offer here is that we feel so lucky to have met him and worked with him (always grateful to The Ex for this .. and for everything else!). Keep the torch alive!

Altro episodio di rilievo, è La stessa barca dei partenopei 24 Grana, che, nell’estate del 2010, si recano anche loro a Chicago, orfani del bassista Ferdinando Cotugno (sostituito da Alessandro Innaro degli Epo), e registrano in presa diretta uno dei loro lavori più intimi e crudi, che probabilmente anche grazie ad Albini dietro la consolle, recupera una piena dimensione analogica, assimilabile all’attitudine live. Questa la loro dedica:

Chicago, agosto 2010.Entrammo in maniera un po’ reverenziale agli Electric Audio quell’estate. Mi pare il minimo, c’erano le pizze di Surfer Rosa e di altri capolavori seminati in quello studio.Steve invece fu accogliente e passammo insieme due settimane immersi nelle canzoni de La Stessa Barca.Gli piacevano i Tamales e spesso erano il cibo della nostra pausa pranzo.Per le band indipendenti si era sempre sbattuto e così fu anche per noi, fino a trovarci da suonare allo storico Double Door di Milwaukee Av. Fu affettuoso.Thank you kindly (come scritto sul frigorifero), Steve

Infine, ricordiamo anche i Capobranco, trio padovano “alternative-rock”, che nel 2018 era volato agli Elctrical Audio per registrare il suo terzo lavoro, In Dipendenza, pubblicato l’anno dopo con Jetglow Recordings: un disco che era, come suggerito dal titolo del primo singolo Indiependenza, anche una riflessione sul concetto di “indie” in Italia, e nel cui ritornello ironicamente (e polemicamente) recitava: “voglioimparare a fare l’indie, come Calcutta e iGiornalisti”. Piccola curiosità: il brano citato,si apre proprio con la voce di Albini che dice: “Pronto? Registriamo!”. (Valentina Zona)

Steve Albini. Tutti gli album ai quali ha collaborato (o quasi) (9)

My Black Ass. Eh no, non ci siamo dimenticati che…

Se non avesse prodotto centinaia di band nei suoi studi di Chicago, oppure in giro per l’America e per il mondo; se dischi che hanno fatto epoca non avessero suonato in quel modo speciale grazie al suo genio e rigore di sound engineer; se il suo nome non fosse diventato un marchio di qualità che garantiva anche per i musicisti che lavoravano con lui in consolle – per quanto a parole si dissociasse dai loro “errori e e dal loro cattivo gusto” … ecco, se non ci fosse stato lo Steve Albini che registrava gli altri, di Steve Albini si parlerebbe lo stesso con altrettanta stima e ammirazione per quello che ha creato in quarant’anni di musica come chitarrista, vocalist e leader di band. Dieci album di studio tra Big Black, Rapeman e Shellac – cui va a onor del vero aggiunta una costellazione di EP e mini album – sono in fondo pochi, se si pensa pure che nel conteggio è compreso Futurist degli Shellac, distribuito solo come omaggio per gli amici. Ma poco importa: non conta la quantità. È la qualità che fa la differenza.

Si comincia con il rock “rumorista” e oltranzista dei Big Black, voce unica e velenosissima nel panorama indie USA degli anni ‘80. Dischi come Atomizer e Songs About f*cking definiscono una parte importante dell’universo noise ma se ne può sentire l’eco in tanto post-hardcore e nel primissimo post-rock americano (i dischi di Bitch Magnet e Slint che vedete citati qui sopra). Poi arrivano i Rapeman durati lo spazio di un disco e di un EP, ma che sono un ponte essenziale per le esperienze degli anni ’90. Gli Shellac sono uno step ulteriore nell’evoluzione espressiva del nostro Steve, la quadratura del cerchio, anzi del triangolo, visto che l’alchimia del trio con Bob Weston – anche lui musicista e produttore di altissimo livello – e Todd Trainer è qualcosa di raro che unisce l’istinto più tagliente e le strutture musicali più audaci.

Non si può dire che abbia cambiato attitudine Steve nel corso degli anni, pur temperando certi spigoli e prendendo le distanze da qualche uscita offensiva del passato: sempre indipendente – ma agendo più volte da coscienza critica della sua stessa scena –, sempre ostile agli standard dell’industria musicale, dal 1987 fedele alla Touch and Go dell’amico Corey Rusk, anche se la sua vera “casa” artistica erano gli Electrical Audio fatti costruire negli anni ’90 secondo i suoi desiderata acustici dopo che già da una decina d’anni aveva un suo studio dove faceva lavorare le band. Suonava per il mondo senza manager o agenzie di booking. Ha continuato a preferire l’analogico, che si trattasse del vinile o degli strumenti per registrare. Gli è anche rimasta la nomea di personaggio polemico e integralista, anche se col tempo è emerso un quadro più ironico e sfumato. Per la musica si potrebbe dire la stessa cosa: stesso impatto viscerale ma via via più complessa. Dalla freddezza “industriale” dei Big Black alle vulcaniche geometrie degli Shellac, il suo stile di chitarra, sempre aggressivo e non convenzionale, è cresciuto in finezza e varietà – anche tagliuzzando scampoli di tradizione americana e mescolandoli ai suoi abituali sconquassi armonici–, prova dell’evoluzione caparbia di chi non si accontenta di avere creato un marchio di fabbrica – e non fa dischi di routine anche se è normale che non tutti siano capolavori. Però alcuni sì. Abbiamo scelto cinque album per questo nostro breve riassunto e qualche riga la spendiamo volentieri anche per l’ultimo, To All Trains. (Tommaso Iannini)

Steve Albini. Tutti gli album ai quali ha collaborato (o quasi) (10)

Big Black – Atomizer (Homestead, 1986)

Albini è nato in California, a Pasadena. Però è cresciuto a Missoula, Montana. Molti prototipi umani che popolano i testi dei Big Black vengono da lì – sputati fuori dall’universo infinitamente piccolo e al contempo smisurato dell’ultra-provincia americana. Una curiosità: a Missoula anche David Lynch ha trascorso anni dell’infanzia, da ragazzino ha vissuto in più posti del genere e ne ha tratto ispirazione per Velluto blu e Twin Peaks. Lynch indaga il buio oltre e sotto le siepi dell’America media, bianca e borghese scoprendo insetti immondi e spiriti maligni. Nel mondo di Albini i mostri li genera la banalità di quei luoghi e di una vita in apparenza fin troppo normale. Pedofili, piromani, assassini, gente che si diverte a osservare gli animali al macello: potremmo dire il frutto più logico di tanta noia e ottusità. Tutto questo non ha niente di edificante né il modo in cui i Big Black ce lo raccontano e le mazzate sonore che ci propinano lo redimono da nessun punto di vista. Si tratta di puro, perverso realismo. Tutto diventa sublime lo stesso perché – nello stesso anno in cui il regista suo ex concittadino incontra Angelo Badalamenti – Albini con Santiago Durango e Dave Riley perfeziona la colonna sonora dei suoi racconti dell’orrore – della banalità dell’orrore, quotidianamente americano. Dopo una serie di EP in cui la creatura Big Black (all’inizio uno pseudonimo del solo Albini) ha messo su ciccia e ossa, Atomizer è il primo grande album. Il lato B è nel segno dell’industrial-rock più violento e martellante ma è soprattutto il trittico da urlo iniziale a diventare indimenticabile: l’escalation di strappi brutali e asfissianti sto(m)p & go di Jordan Minnesota, il funk suonato da cyborg scazzati di Passing Complexion, e soprattutto i clangori sfavillanti di una Kerosene – che rimane a imperitura memoria come la quintessenza Big Black tradotta nella loro miglior canzone (Tommaso Iannini)

Big Black – Songs About f*cking (Touch and Go, 1987)

Steve Albini è un virtuoso delle note di copertina. Le più belle in assoluto sono quelle concettuali di At Action Park degli Shellac, con le formule fisiche e le immagini degli amati microfoni. Nei dischi dei Big Black ci sono le prime, le più viscerali, le più dirompenti, sature di cinico e caustico sense of humour. Uno spasso – a meno che non siate per il politicamente corretto uber alles e in questo caso bisogna contare fino a dieci e fare un bel respiro prima di mettersi a leggere… Songs About f*cking è il “testamento” musicale dei Big Black. Uscito a band già sciolta, fatto addirittura celebrato nelle liner notes, ha pezzi apparentemente meno incisivi dei migliori di Atomizer ma un sound non meno ficcante, con la batteria elettronica a Roland dettare tempi aggressivi e sincopati – in più di un caso danzabili, vedi Bad Penny o la cover di The Model dei Kraftwerk – e le chitarre distorte e (mal)trattate per farne risaltare la metallica matericità e il rumore perforante. Colombian Necktie, Ergot, Kasimir S. Pulaski Day,L Dopa sono pezzi che per quanto debitori di PIL e Killing Joke e di molto post-punk specialmente inglese contengono il libretto d’istruzioni per noisesters di tutte le età e di tutte le risme (Ministry, White Zombie, Cop Shoot Cop e non solo) e un kit per le future evoluzioni di Albini post-uomo nero. (Tommaso Iannini)

Rapeman – Two Nuns and a Pack of Mule (Touch and Go, 1988)

Dei Rapeman si ricordano le ovvie polemiche intorno al nome (ispirato da un assurdo fumetto giapponese), una scelta che Albini definirà anni dopo sciocca e imperdonabile, stonata anche se – va detto – in linea con la linea oltraggiosa (appunto) del suo personaggio dell’epoca. Cambiano i musicisti al suo fianco e cambia la forma della band, un power trio con il basso e la batteria, forniti da David Wm. Sims e Rey Washam, asse ritmico dei texani Scratch Acid, ottimo gruppo nato in Texas ma emigrato artisticamente a Chicago dove la sorte vorrà che da due di loro (Sims e il cantante David Yow) nasceranno i Jesus Lizard.

Albini suona con un batterista vero dopo gli anni passati a programmare Roland e la dinamica cambia completamente. I Rapemen producono solo un EP, Budd, che contiene un pezzo, la title-track, di fatto già post-rock, e questo LP, un po’ via di mezzo e un po’ punto di svolta. Molti brani ricordano ancora i Big Black ma Monobrow anticipa di sei anni l’andatura spezzettata di Pull the Cup degli Shellac, mentre Kim’s Gordon Panties suona come un omaggio ai Sonic Youth e allo stesso tempo preannuncia gli Slint di Spiderland. (Tommaso Iannini)

Steve Albini. Tutti gli album ai quali ha collaborato (o quasi) (11)

Shellac – At Action Park (Touch and Go, 1994)

Parlavamo di evoluzione sonora: dal punto di vista prettamente tecnico la musica degli Shellac rispetto ai gruppi precedenti rappresenta un salto quantico. La fisica non è un termine di paragone campato per aria. Al posto del solito chitarra-basso-batteria il gruppo nelle note di questo primo LP viene presentato con una sorta di formula: Bob Weston, massa; Steve Albini, velocità; Todd Trainer, tempo. E infatti a colpire non è tanto la violenza della musica, sempre febbrile e convulsa, ma le partiture puntigliose e la destrezza di certi interscambi chitarra-basso-batteria. È un’evoluzione e anche una sterzata forte verso uno stile che pur mantendendo la matrice punk e noise sviluppa in chiave totalmente personale un modello per ciò che la critica ribattezzerà “math rock”.

La chitarra di Albini emerge sempre ruvida e dissonante e la musica anche se scabra e tignosa come da curriculum ha un senso del groove incredibile grazie al lavoro stratosferico di un polipesco Todd Trainer e ai contrappunti pirotecnici di tutto il trio. Compositivamente parlando, gli Shellac hanno un bel po’ di assi da giocare, praticamente tutti i dieci pezzi, dall’anima jazz-funk sotto le sprangate metalliche di My Black Ass, alle progressioni mozzafiato di Pull the Cup, che trasforma una linea di chitarra tutta scricchiolante e frantumata in uno strumentale titanico, e poi The Admiral, che rielabora le suggestioni degli Slint, o il passo di marcia spastico e inarrestabile di Crow, lunga rincorsa zoppa verso un finale dirompente e quasi fugaziano. (Tommaso Iannini)

Shellac1000 Hurts (Touch and Go, 2000)

Terzo LP degli Shellac, tuttora il mio preferito dopo At Action Park, che è semplicemente inarrivabile. Uno dei motivi si chiama sicuramente Prayer to God, un pezzo disarmante e atrocemente bello che poteva probabilmente scrivere e suonare cantare solo Steve Albini. Questa volta quasi con una pietas che era difficile riscontrare nel cinismo efferato delle narrazioni Big Black. Squirrel Song è un’altra sad f*cking song che ha la forza motrice del trio Albini-Weston-Trainer nel momento apicale – anche se in una maniera stranamente melodica. Però il momento più emozionante, straziante a dire il vero, è Mama Gina, una canzone autobiografica dedicata alla madre di Steve appena scomparsa (sì, l’uomo ha dei sentimenti e la sua musica li sa anche trasmettere). (Tommaso Iannini)

Shellac – To All Trains (Touch and Go, 2024)

Mentre scrivo la Touch and Go ha dichiarato esaurita la prima tiratura di To All Trains annunciando la prossima per fine giugno, e intanto qualcuno sta pensando bene di rivendere delle copie online a prezzi assurdi. Steve Albini dovunque sia starà ridendo delle nostre miserie intellettuali. E ho come l’impressione che lo seccherà questa cosa più del fatto che qualcuno lo conosca ancora soltanto come il produttore di In Utero. Il disco non è il migliore degli Shellac ma spiega con argomenti più che sufficienti perché la sua uscita era tanto attesa – prima che succedesse all’improvviso quello che tutti sappiamo.

Se i termini noise e “elegante” vi sembrano una contraddizione in termini, la musica degli Shellac è fatta apposta per risolvere l’aporia, dai blues decostruiti come i pezzi iniziali – WSOD e Girl From the Outside – alla furia dissonante di Chick New Wave, alle tipiche combinazioni sincopate. Non può non fare breccia nei nostri cuori l’omaggio ai Fall di How I Wrote How I Wrote Elastic Man. Però se c’è un pezzo da antologia, arriva alla fine e si impone perentorio su tutto. In concerto I Don’t Fear Hell sarebbe stata sensazionale. Su disco fa accapponare la pelle. L’ultimo pezzo degli Shellac ha un precipitato albiniano purissimo e densissimo. I’ll leap in my grave like the arms of a lover/If there’s a heaven, I hope they’re having fun/Cause if there’s a hell, I’m gonna know everyone – l’ultimo colpo da maestro di quel geniaccio scorbutico. (Tommaso Iannini)

Steve Albini. Tutti gli album ai quali ha collaborato (o quasi) (12)

Tutti gli album ai quali ha lavorato come ingegnere del suono (o perlomeno molti di loro)

1986

  • Urge Overkill – Strange, I…

1988

  • Pixies – Surfer Rosa
  • Head Of David – Dustbowl
  • Gore – Wrede -The Cruel Peace
  • The End Of Music (Compilation)
  • puss* Galore/Black Snakes – Split
  • Bitch Magnet – Star Body
  • Flour – Flour
  • The Membranes – Kiss Ass… Godhead!

1989

  • Band of Susans – Love Agenda
  • Tar – Handsome
  • Wreck – Wreck
  • The Jesus Lizard – Pure
  • Tad – Wood Goblins b/w Cooking with Gas + Daisy
  • Theweddingpresent – Brassneck
  • The Wedding Present – Bizzaro
  • Ut – Griller
  • Poster Children – Flower Power
  • Sixteen Tons -4 Songs 16 Tons 7″
  • Boss Hog – Drinkin’, Lechin’ & Lyin’
  • puss* Galore – Dial ‘M’ for Motherf*cker
  • Flea Circus – Slingshot
  • Slint – Tweez

1990

  • The Breeders – Pod
  • Boss Hog – Cold Hands
  • Flour – Luv 713
  • Sixteen Tons – Headshot
  • The Jesus Lizard – Head
  • Tad – Salt Lick / God’s Balls
  • Whitehouse – Thank Your Lucky Stars
  • Whitehouse – Cream of the Second Coming
  • Wreck – Soul Train
  • Pigface – Gub
  • Hum – Is Like Kissing An Angel (She Said)
  • VVAA – Rubáiyát (Elektra’s 40th Anniversary)
  • Tar – Roundhouse
  • Mass – Pulling/Thinking 7”
  • Sludgeworth – Sludgeworth
  • Theweddingpresent – 3 Songs
  • Big Trouble House – Watered Down 7”
  • Masters of the Obvious – She’s Not Ready 7”
  • Poster Children – Thinner, Stronger” b/w “Pointed Stick 7”
  • Bitch Magnet – Ben Hur

1991

  • The Jesus Lizard – Goat
  • Poster Children – Daisychain Reaction
  • Wreck – House of Boris
  • Theweddingpresent – Dalliance 7”
  • Theweddingpresent – Lovenest
  • Cheer-Accident – Dumb Ask
  • Scrawl – Bloodsucker
  • Cheeze TM – Dancing with the Dead 7”
  • Bewitched – Harshing My Mellow
  • Sandy Duncan’s Eye – Sandy Duncan’s Eye
  • Zeni Geva – Total Castration
  • Sometime Sweet Susan – Collide
  • Naked Vanilla – Wooly Metal
  • Dolomite – Venus 7”
  • The Didjits – Full Nelson Reilly
  • The Wedding Present – Seamonsters
  • The Mark Of Cain – Incoming
  • Superchunk – No Pocky For Kitty
  • Tar – Jackson
  • Volcano Suns – Career in Rock
  • Urge Overkill – The Supersonic Storybook

1992

  • Things That Fall Down – Disbelief
  • Bewitched – Harshing My Mellow
  • Jon Spencer Blues Explosion – The Jon Spencer Blues Explosion
  • The Jesus Lizard – Liar
  • Helmet – Meantime (solo il brano The Meantime)
  • Mule – Mule
  • Thrillhammer – Giffless
  • Failure – Comfort
  • Zeni Geva – Nai-Ha
  • Murder, Inc. – Murder Inc.
  • Crain – Speed
  • Union Carbide Productions- Swing
  • Whitehouse – Twice Is Not Enough (solo nel brano Neronia)
  • Dazzling Killmen – Dig Out The Switch
  • Distorted Pony – Punishment Room
  • Fugazi – In On The Kill Taker
  • Peter Sotos – Buyer’s Market

1993

  • Crow– My Kind Of Pain
  • Engine Kid– Bear Catching Fish
  • Craw– Craw
  • Don Caballero – Our Caballero b/w My Ten Year Old Lady Is Giving It Away (a-side only, uncredited)
  • Don Caballero – Andandandandandandandand b/w First Hits
  • Don Caballero– For Respect
  • Screeching Weasel/Pink Lincolns – Split
  • PJ Harvey– Rid of Me
  • Jawbreaker– 24 Hour Revenge Therapy
  • Nirvana– In Utero
  • Shadowy Men on a Shadowy Planet– Sport Fishin’: The Lure of the Bait, The Luck of the Hook
  • King Cobb Steelie
  • Mule – Wrung EP
  • Shorty – Thumb Days
  • Silkworm– His Absence Is a Blessing single
  • Tar– Toast
  • Urbn DK– Denial (uncredited)
  • Usherhouse– Molting
  • Zeni Geva– Desire for Agony
  • Zeni Geva– All Right You Little Bastards (live album, Albini plays guitar)
  • Various Artists– 1993 Mercury Music Prize: Shortlist Sampler
  • Various Artists– The Beavis and Butt-Head Experience
  • Various Artists– Whip

1994

  • Big’n– Cutthroat
  • Red Krayola– The Red Krayola (W/Bob Weston e Brian Paulson)
  • Slint – untitled
  • Space Streakings– 7-Toku (solo il mix)
  • Dazzling Killmen– Face of Collapse
  • Whitehouse– Halogen (co-produced with William Bennett)
  • Silkworm– In the West
  • Various Artists– Insurgent Country, Vol. 1: For a Life of Sin
  • Silkworm– Libertine
  • The Jesus Lizard– Down
  • Melt-Banana– Speak Squeak Creak
  • Craw– Lost Nation Road
  • Crow– My Kind of Pain
  • Mule– “If I Don’t Six”
  • Morsel– Noise Floor
  • Brise-Glace– When in Vanitas
  • Brise-Glace– In Sisters all and Felony 7-inch
  • Various Artists– You Got Lucky: Tom Petty Tribute
  • Six Finger Satellite– Machine Cuisine
  • johnboy– claim dedications
  • Breadwinner– Burner
  • Souls– tjitchhischtsiy
  • The Lizard Train– Everything Moves
  • The Lizard Train– Inertia
  • Mo Fuzz– The Great Unwashed

1995

  • Uzeda– 4
  • Faucet– Bleeding Head
  • Lizard Music– Fashionably Lame
  • Zeni Geva– Freedom Bondage
  • Killdozer– God Hears Pleas of the Innocent
  • Various Artists– Homage: Lots of Bands Doing Descendents’s Songs
  • Gaunt– I Can See Your Mom From Here
  • Superchunk– Incidental Music 1991–95
  • Various Artists– Insurgent Country, Vol. 2: Hell-Bent
  • Screeching Weasel– Kill the Musicians
  • 18th Dye– Tribute to a Bus
  • The Fleshtones– Laboratory of Sound
  • Martians– Low Budget Stunt King
  • Various Artists– A Means to an End: The Music of Joy Division
  • Gastr del Sol– Mirror Repair EP
  • Tar– Over and Out
  • The Amps– Pacer
  • Sloy– Plug
  • Man or Astro-man?– Project Infinity
  • Whitehouse– Quality Time (co-prodotto con William Bennett)
  • Tony Conrad– Slapping Pythagoras
  • Palace Music– Viva Last Blues
  • Oxbow– Let Me Be a Woman (recorded 1993)
  • Yona-Kit– Yona-Kit
  • Melt-Banana– Scratch or Stitch
  • Thrush Hermit– The Great Pacific Ocean
  • Galaxy Of Mailbox whor*s– West To Solve Crimes

1996

  • The Auteurs– After Murder Park
  • Laurels– L
  • Palace Music– Arise Therefore
  • Oxbow– Serenade in Red (European release)
  • Rosa Mota– Bionic
  • Robbie Fulks– Country Love Songs
  • Big’n– Discipline Through Sound (credited as “Inibla Nevets”)
  • Silkworm– Firewater
  • Bodychoke– Five Prostitutes
  • A Minor Forest– Flemish Altruism (Constituent Parts 1993–1996)
  • Phono-Comb– Fresh Gasoline
  • Brainiac– Hissing Prigs in Static Couture
  • Dis-– Historically Troubled Third Album
  • Splendorbin– Stealth
  • Stinking Lizaveta– Hopelessness & Shame
  • Various Artists– In Defense of Animals, Vol. 2
  • The Union– In Terminus GA, 1997
  • Various Artists– Jabberjaw Compilation, Vol. 2: Pure Sweet Hell
  • Fred Schneider– Just Fred
  • Smog– Kicking a Couple Around EP
  • Mandingo– Macho Grande
  • Cheer-Accident– Not a Food
  • Ativin– Pills vs. Planes
  • Sloy– Planet of Tubes
  • Bush– Razorblade Suitcase
  • Dazzling Killmen– Recuerda (in soli tre brani)
  • The Mark of Cain– Rock & Roll
  • Various Artists– Shots in the Dark
  • Nirvana– Singles
  • Shakuhachi Surprise– Space Streakings Sighted Over Mount Shasta
  • Les Thugs– Strike
  • Bush– “Swallowed” single
  • Hubcap– Those Kids Are Weirder
  • Low– Transmission EP
  • Scrawl– Travel On, Rider
  • Guided by Voices– Under the Bushes Under the Stars (in soli due brani)
  • Vent 414– Vent 414
  • Killdozer & Ritual Device– When the Levee Breaks
  • Veruca Salt– Blow It Out Your Ass It’s Veruca Salt
  • Burning Witch– Towers…
  • Wuhling– Extra 6
  • Cord– Easy Living On 101

1997

  • Souls– Bird fish or inbetween
  • Bokomolech– Jet Lag, LP
  • Cheap Trick– “Baby Talk” b/w “Brontosaurus” single
  • Cheap Trick– unreleased re-recording of In Color
  • Craw– Map, Monitor, Surge
  • Darling Little Jackhammer– Criminally Easy To Please
  • Ein Heit– Lightning and the Sun
  • Great Unraveling– Great Unraveling
  • Oxbow– Serenade in Red (US release; recorded 1996)
  • Pegboy– Cha Cha Damore
  • Pixies– Death to the Pixies
  • P. W. Long’s Reelfoot– We Didn’t See You on Sunday
  • Silkworm– Developer
  • Solar Race– Homespun
  • Spider Virus– Electric Erection
  • Storm & Stress– Storm & Stress
  • Various Artists– Guide to Fast Living, Vol. 2
  • Various Artists – The Jackal
  • Dianogah– As Seen from Above
  • La Gritona – Arrasa Con Todo (1997)

1998

  • Pansy Division– Absurd Pop Song Romance
  • Pedro, Muriel & Esther– The White To Be Angry
  • Jon Spencer Blues Explosion– Acme
  • Ballydowse – The Land, The Bread, And The People
  • Young Dubliners– Alive Alive O
  • Silver Apples– Beacon
  • Uzeda– Different Section Wires
  • Silkworm– Even a Blind Chicken Finds a Kernel of Corn: 1990–1994
  • Eclectics– Idle Worship
  • Will Oldham– Little Joya
  • Pansy Division– More Lovin’ from Our Oven
  • Plush– More You Becomes You
  • Whitehouse– Mummy and Daddy (track “Private” only)
  • Dirty Three– Ocean Songs
  • The Sadies– Precious Moments
  • Various Artists– Smash Your Radio: Jump Up! Sampler
  • Bert– Bert (Pinebox Records)
  • Cordelia’s Dad– Spine
  • The Ex– Starters Alternators
  • The Traitors– Traitors
  • Dirty Three– Ufkuko
  • Joel RL Phelps and the Downer Trio– 3
  • Jimmy Page & Robert Plant– Walking into Clarksdale
  • Mount Shasta– Watch Out (credited as “Debbie Albini”)
  • Vandal X– Songs from the Heart
  • Bedhead– Transaction de Novo
  • .22– Watertown EP

1999

  • Teenage Frames– 1% Faster
  • Fun People– The Art(e) of Romance
  • Chisel Drill Hammer– Chisel Drill Hammer
  • Early Lines– Are Tired Beasts
  • Filibuster– Deadly Hifi
  • Jon Spencer Blues Explosion– Emergency Call from Japan
  • Neurosis– Times of Grace
  • The Bollweevils– History of the Bollweevils, Vol. 2
  • Distortion Felix– I’m an Athlete
  • Ensimi– BMX
  • Murder, Inc.– Locate Subvert Terminate: The Complete Murder Inc.
  • Nina Nastasia– Dogs (re-released 2004)
  • Neutrino– Motion Picture Soundtrack
  • Chevelle– Point #1
  • Various Artists– Poor Little Knitter on the Road: A Tribute to the Kni
  • The Sadies– Pure Diamond Gold
  • Low– Secret Name
  • Don Caballero– Singles Breaking Up (Vol. 1) (uncredited, five songs only)
  • Ativin– Summing the Approach
  • Pezz– Warmth & Sincerity
  • Hosemobile– What Can & Can’t Go On
  • Jon Spencer Blues Explosion– Xtra Acme USA (seven songs only)
  • Dragbody– Flip The Kill Switch
  • New Brutalism– A Diagram Without Scale Or Dimension
  • Pugs – Chimato Kubiki

2000

  • Will Oldham & Rian Murphy– All Most Heaven
  • Various Artists– Best Anthems… Ever!
  • Cinerama– Disco Volante
  • Don Caballero– American Don (credited only as “the proprietor” of Electrical Audio)
  • Silkworm– Lifestyle
  • Jon Spencer Blues Explosion– “Magical Colours” b/w “Confused” single
  • Shannon Wright– Maps of Tacit
  • Neurosis– Sovereign
  • Man or Astro-man?– A Spectrum of Infinite Scale
  • Flogging Molly– Swagger
  • The Bomb– Torch Songs
  • Caesar– Leaving Sparks
  • Robbie Fulks– Very Best of Robbie Fulks
  • Destro 1– Start the whole mechanical sequence
  • Dianogah– Battle Champions
  • High Dependency Unit– Fire Works
  • xbxrx– Gop Ist Minee

2001

  • Early Lines– Hate the Living, Love the Dead
  • Zeni Geva– 10,000 Light Years
  • Robbie Fulks– 13 Hillbilly Giants
  • The Bottletones– Adult Time
  • Meat Joy– Between the Devil and the Deep
  • Robbie Fulks– Couples in Trouble
  • Whitehouse– Cruise (track “Public” only)
  • Joan of Arse– Distant Hearts, a Little Closer
  • The Ex– Dizzy Spells
  • Shannon Wright– Dyed in the Wool
  • The Traitors– Everything Went sh*t: Lost and Collected Tracks
  • Ballydowse– Out Of The Fertile Crescent
  • Danielson Famile– Fetch the Compass Kids
  • Labradford– Fixed::Context
  • Cinerama– “Health and Efficiency
  • Double Life– III Song EP
  • XBXRX– Gop Ist Minee
  • Chestnut Station– In Your Living Room
  • Mogwai– “My Father My King”
  • The New Year– Newness Ends
  • Owls– Owls
  • Hero of a Hundred Fights– The Remote, the Cold
  • Various Artists– Rough Trade Shops: 25 Years
  • Neurosis– A Sun That Never Sets
  • Low– Things We Lost in the Fire
  • Sonna– We Sing Loud Sing Soft Tonight
  • Edith Frost– Wonder Wonder
  • Point 22– Worker
  • Loraxx– Yellville
  • Rye Coalition– ZZ Topless/Snowjob
  • Honey for Petzi– Heal All Monsters
  • fra-foa– chuuno-fuchi (three songs only)
  • The Black Lungs (Michigan band, not the Canadian band of the same name)– unreleased album
  • Technician– Opposition EP
  • The Frames– For The Birds
  • Saturnine– Pleasure of Ruins

2002

  • Various Artists– All Tomorrow’s Parties 2.0: Shellac Curated
  • Glen Meadmore– Cowboy Songs for Little Hustlers
  • Nina Nastasia– The Blackened Air
  • Flogging Molly– Drunken Lullabies
  • Jawbreaker– Etc.
  • Plush– Fed
  • Goatsnake/Burning Witch– Goatsnake/Burning Witch
  • Silkworm– Italian Platinum
  • Giddy Motors– Make It Pop
  • Mclusky– Mclusky Do Dallas
  • Various Artists– Membranaphonics
  • Rye Coalition– On Top
  • Portastatic– Perfect Little Door
  • Milemarker– Satanic Versus
  • The Quarterhorse– I was on fire for you
  • Bellini– Snowing Sun
  • Sonic Mook Experiment– Sonic Mook Experiment 2: Future Rock & Roll
  • Beachbuggy– Sport Fury
  • The Ghost– This Is a Hospital
  • Bloodlet– Three Humid Nights in the Cypress Trees
  • Vermillion– Flattening Mountains and Creating Empires
  • The Breeders– Title TK
  • Cinerama– Torino
  • Cordelia’s Dad– What It Is
  • Adrian Crowley– When You Are Here You Are Family
  • Godspeed You! Black Emperor– Yanqui U.X.O.
  • 54-71– enClorox
  • Zu– Igneo
  • Dionysos– Western sous la neige
  • Dead Man Ray– Cago
  • Jon Spencer Blues Explosion– Plastic Fang
  • Nirvana– Nirvana (recorded four songs)
  • Brick Layer Cake– Whatchamacallit

2003

  • Sylvan – The Ugly Lemon
  • Early Lines– Pure Health
  • Subersive– Antihero
  • Cinerama– Cinerama Holiday
  • Ring, Cicada– Good Morning Mr. Good
  • The Heavils– Heavils
  • Original Score– Hell House
  • Scout Niblett– I Am
  • Valina– Vagabond
  • The Forms– Icarus
  • Duenow– If You Could Only See What They Are Doing to You
  • Cheer-Accident– Introducing Lemon
  • Songs: Ohia– The Magnolia Electric Co.
  • Pepito– Migrante
  • Dysrhythmia– Pretest
  • The Frames– The Roads Outgrown
  • Nina Nastasia– Run to Ruin
  • Sonna– Smile and the World Smiles with You
  • Cheap Trick– Special One
  • The Desert Fathers– Spirituality
  • F-Minus– Sweating Blood
  • Transit Belle– Transit Belle
  • F-Minus– Wake Up Screaming
  • Rope– Widow’s First Dawn
  • Various Artists– Wig in a Box
  • Federation X– X Patriot
  • Purplene– Purplene
  • The Hidden– Hymnal EP
  • Red Swan– Michigan Blood Games
  • 12Twelve– Speritismo
  • Chevreuil– Chateauvallon
  • Whitehouse– Bird Seed (title track only)
  • A Whisper in the Noise– Through the Ides of March
  • Berkeley– Hopes, Prayers and Bubblegum
  • Three Second Kiss– Music out of Music
  • Uncommonmenfrommars– Kill the Fuze

2004

  • yourcodenameis:milo– All Roads to Fault
  • Living Things– Black Skies in Broad Daylight
  • mclusky– The Difference Between Me and You Is That I’m Not on Fire
  • Neurosis– The Eye of Every Storm
  • Bear Claw– Find The Sun
  • Leftöver Crack– f*ck World Trade
  • Various Artists– How Soon Is Now?: The Songs of the Smiths By…
  • Living Things– I Owe
  • Silkworm– It’ll Be Cool
  • Haymarket Riot– Mog
  • Various Artists– Neurot Recordings
  • Various Artists– No Depression: What It Sounds Like, Vol. 1
  • Shannon Wright– Over the Sun
  • 0.22– Patriots
  • Electrelane– The Power Out
  • Various Artists– TRR50: Thank You
  • The Ex– Turn
  • Amber– Putting All the Pieces Together
  • La Habitación Roja– Nuevos Tiempos
  • Plush– Underfed
  • Helmet– Unsung: The Best of Helmet (1991–1997)
  • Scout Niblett– Uptown Top Ranking
  • Mono– Walking Cloud and Deep Red Sky, Flag Fluttered and the Sun Shined
  • Pixies– Wave of Mutilation: Best of Pixies
  • Saeta– We Are Waiting All for Hope
  • Chauncey– My Radio (Everything I Know)
  • Nirvana– With the Lights Out
  • Wrangler Brutes– Zulu
  • Bright Channel– Bright Channel
  • Phillip Roebuck– One-man band
  • Senator– United Wire
  • Father Divine– The Paradigm Shift
  • The New Year – The End Is Near

2005

  • Living Things– Ahead of the Lions
  • BANG sugar BANG– Victory Gin
  • Electrelane– Axes
  • Kash– Beauty Is Everywhere/Kash
  • High on Fire– Blessed Black Wings
  • Terry Stamp– Bootlace Johnnie & The Ninety-Nines
  • The Ponys– Celebration Castle
  • Gogol Bordello– East Infection
  • The Hidden– Smash to Ashes
  • Gogol Bordello– Gypsy Punks: Underdog World Strike
  • Wonderful Smith– Hello, It’s Wonderful
  • Jaks– Here Lies the Body of Jaks
  • Scout Niblett– Kidnapped by Neptune
  • The Patsys– On The 13th Kick
  • Make Believe– Shock of Being
  • Bellini– Small Stones
  • Magnolia Electric Co– What Comes After the Blues
  • Cinerama– Don’t Touch That Dial
  • Spy– Spy
  • From Fiction– Bloodwork
  • Boxes– Bad Blood
  • Die! Die! Die!– Die! Die! Die!
  • Loraxx– Selfs

2006

  • This Moment in Black History– It Takes a Nation of Assholes to Hold Us Back
  • Jinx Titanic– Stuporstardom!
  • The Cape May– Glass Mountain Roads
  • Cougars– Pillow Talk
  • Sparrklejet– Beyond the Beyond
  • Two Minute Warning– Short Stories On Super-Eight
  • Mise en Place– Innit
  • Mono– You Are There
  • New Grenada– Modern Problems
  • Zao– The Fear Is What Keeps Us Here
  • Joanna Newsom– Ys
  • 12Twelve– L’Univers
  • Nina Nastasia– On Leaving
  • The Time Of The Assassins– Awake In Slumberland
  • The Hidden– Winged Wolves
  • Made Out of Babies– Coward
  • Marty Casey and Lovehammers– Marty Casey and Lovehammers
  • Cheap Trick– Rockford
  • Born Again Floozies– 7 Deadly Sinners
  • Living Things– “Bom Bom Bom”
  • Chevreuil– (((Capoëira)))
  • Chevreuil– Science
  • The Sadies– Live Vol.1
  • Gasoline Heart– You Know Who You Are
  • Phillip Roebuck– Fever Pitch
  • Uzeda– Stella
  • Childproof– Original Copy

2007

  • Second Echo
  • The Stooges – The Weirdness
  • Fun – Zu-Pa!
  • Orchid Trip – Orchid Trip
  • Alamos – Captain Indifferent says, “Whatever”
  • Chingalera – In the Shadow of the Black Palm Tree
  • Moutheater – Lot Lizard
  • stuffy/the fuses – Angels Are Ace
  • Hot Little Rocket – How to Lose Everything
  • Weedeater – God Luck and Good Speed
  • A Whisper In The Noise – Dry Land
  • Nina Nastasia & Jim White – You Follow Me
  • The Conformists – Three Hundred
  • Om – Pilgrimage
  • Valina – a tempo! a tempo!
  • Scout Niblett – This Fool Can Die Now
  • The Judas Goats – Cold Creases E.P.
  • The Forms – st
  • Stinking Lizaveta – Scream of the Iron Iconoclast
  • Phonovectra – Too Young To Die
  • Neurosis – Given to the Rising
  • Bear Claw – Slow Speed: Deep Owls

2008

  • Aloke – I Moved Here to Live
  • Esquimaux – Tiger
  • The Breeders – Mountain Battles
  • My Disco – Paradise
  • Over Vert – Gagging and Swallowing
  • Popular Workshop – We’re Alive And We’re Not Alone
  • Scott Weiland – “Happy” in Galoshes
  • The Pale Figures – Memphis and Chicago
  • Nations Of Fire – If It Swings, We’ve Got It!
  • Room 101 – The Pitch
  • Trash Talk – Trash Talk
  • ALiX – Good 1
  • The Wedding Present – El Rey
  • Haymarket Riot – Endless Bummer
  • 54-71 – I’m not fine thank you, and you?
  • Three second kiss – Long Distance Runner
  • Vitamin X – Full Scale Assault
  • Ranheim – I Don’t Like The Smiths EP
  • Ranheim – Norwegian Wood
  • Precore – Sick
  • Born Again Floozies – street music, 13 Rebellions and a Song of Consolation
  • The Provocative Whites – EVOLYM (pubblicato ad aprile 2009)
  • The New Year – The New Year

2009

  • Mono – Hymn to the Immortal Wind
  • Manic Street Preachers – Journal for Plague Lovers
  • Umphrey’s McGee – Mantis
  • Stella Peel – Stella Peel
  • Jarvis co*cker – Further Complications
  • Minto – Lay It On Me
  • Delby L – Nine Skies
  • The Thing – Bag It!
  • PRE – Hope Freaks
  • Magnolia Electric Co. – Josephine
  • Drug Mountain – Drug Mountain
  • Motorpsycho – Child of the Future
  • Berri Txarrak – Payola
  • Om – God Is Good
  • Pixies – Minotaur (box set of Pixies previous albums)
  • Tunica Dartos – Sound Buffet (released January 2011)
  • Årabrot – The Brother Seed
  • Kingskin – Slug
  • Leila Adu – Dark Joan
  • The Marder – Men’s Ruin EP
  • Sparklehorse – Bird Machine
  • Anni Rossi — Rockwell

2010

  • Brent Newman & The Broken Arrows – Before The Revolution
  • Scout Niblett – The Calcination of Scout Niblett
  • Bella Clava – The Craic
  • The Ex – Catch My Shoe
  • Nina Nastasia – Outlaster
  • The Bats Pajamas – The Bats Pajamas
  • Grandfather – Why I’d Try
  • My Disco – Little Joy
  • The Conformists – None Hundred
  • Avitia – Windowsmashers and Safecrackers
  • Ferocious f*cking Teeth – Ferocious f*cking Teeth
  • Tubelord – Tezcatlipōca
  • Old Man Lady Luck

2011

  • The Gary – El Camino
  • Let’s Wrestle – Nursing Home
  • Senium – Such Progress
  • Azimyth – Azimyth
  • Bear Claw – Refuse This Gift
  • The Crooked Fiddle Band – Overgrown Tales
  • Sleepwalks – The Milk Has Gone Sour (recording engineer, credited as Stevo)
  • Joan of Arc – Life Like
  • Monotonix – Not Yet (album)
  • Weedeater – Jason…The Dragon
  • Candelilla – Heart Mutter (released February 2013)
  • Ghosts in the Valley – Clockpunchers (released May 2012)

2012

  • We Are Knuckle Dragger – Tit for Tat
  • Cloud Nothings – Attack on Memory
  • China – puss* LP
  • The Cribs – In The Belly of the Brazen Bull
  • Screaming Females – Ugly
  • Younger – TBA
  • A Banquet – Breath
  • Teeth – The Strain
  • Cold Fur (ex Rye Coalition & The Want) – Altamont Every Night
  • Colin Tyler – Live From Studio A
  • Bonnie ‘Prince’ Billy – Now Here’s My Plan (EP)
  • Ominous Black – Self titled (EP)
  • Thom Bowden – TBA
  • Neurosis – Honor Found in Decay
  • Vitamin X – About To Crack
  • Hugh Cornwell – Totem And Taboo
  • Thinning the Herd – Freedom From the Known
  • Alexi Martov – Scent of a Wolf
  • Joe 4 – Njegov Sin[2]

2013

  • Man or Astro-man? – Defcon 5 4 3 2 1
  • Goddard – 10-inch (with Giraffes? Giraffes!)
  • The Crooked Fiddle Band – Moving Pieces Of The Sea
  • Saything – Nonsense
  • The Seething Coast – Olympia
  • STNNNG – Empire Inward
  • Robert Rolfe Feddersen – American Loser
  • The New Trust – Keep Dreaming
  • Barb Wire Dolls – Slit
  • P.K.14 – 1984

2014

  • Brent Newman & The Broken Arrows – Hot Blood
  • Blind Butcher – Albino
  • D3AD BY MONDAY – Memento Mori
  • Captain Blood – Captain Blood
  • Esben and the Witch – A New Nature
  • Foxy Shazam – Gonzo
  • Screaming Females – Live at the Hideout
  • Valina – Container

2015

  • Conduct – Fear and Desire
  • Raketkanon – RKTKN#2
  • KEN mode – Success
  • WOMPS – Live a Little Less/Dreams on Demand
  • Steve Taylor and the Danielson Foil – Wow to the Deadness
  • Weedeater – Goliathan
  • Screaming Females – Rose Mountain
  • Subsurfer – La La La
  • Hex Horizontal– Electric Fence
  • Yonatan Gat – Physical Copy
  • Sterling Witt – Satyagraha

2016

  • Alpha Strategy – Drink the Brine, Get Scarce
  • Womps – Our fertile forever
  • Cocaine Piss – Sex Weirdos 7-inch
  • Cocaine Piss – The Dancer
  • Valina – In Position
  • Peter Squires – When I Couldn’t Move
  • Robbie Fulks – Upland Stories
  • Neurosis – Fires Within Fires
  • The Conformists – Divorce
  • Karabas Barabas – Return of the Sexy Demon
  • Kapitan Korsakov – Physical Violence is the Least of My Priorities
  • Vomitface – Hooray for Me
  • Descartes a Kant – Victims Of Love Propaganda
  • Malojian – This Is Nowhere
  • Mono – Requiem For Hell
  • Dazzling Killmen – Face of Collapse: Special Edition (25th Anniversary reissue)
  • Chris Cobilis (performed by Spektral Quartet and Kenneth Goldsmith) – This Is You
  • Sex Snobs – Emotional Stuffing
  • KEN mode – Nerve (ep) track 1–4

2017

  • Ty Segall – Ty Segall
  • Meat Wave – The Incessant
  • The Oxford Coma – Everything Out of Tune
  • STNNNG – Veterans of Pleasure
  • The Cribs -24–7 Rock Star sh*t
  • Descartes a Kant– Victims Of Love Propaganda
  • METZ – Strange Peace
  • Andy Pratt — Horizon Disrupted[4]
  • Ben Frost — The Centre Cannot Hold
  • The Wedding Present – George Best
  • The New Year – Snow

2018

  • The Breeders – All Nerve
  • Spare Snare – Sounds Recorded by Steve Albini
  • Signal the Launch – Dance Like a Vampire
  • Elias Black – Reclamation
  • GEZAN — Silence Will Speak
  • Super Unison – Stella
  • Alpha Strategy – The Gurgler
  • Meat Wave – The Incessant
  • Andy Pratt – Further Disruption (EP)
  • Control Group – It’s the year 2000!

2019

  • Fastriser – Type III
  • Mono – Nowhere Now Here
  • Sunn O))) – Life Metal
  • Sunn O))) – Pyroclasts
  • Triliteral – Flying Snake’s Claw
  • Frank Iero and the Future Violents – Barriers
  • Doblecapa – La Felpa
  • Uzeda – Quocumque jeceris stabit
  • Décibelles – Rock Français
  • Asylums – Genetic Cabaret
  • Flat Worms – Antarctica
  • DBOY – New Records in Human Power
  • Ty Segall & Freedom Band – Deforming Lobes
  • Black Orchids – Sakura Sorrow
  • Austero – Austero
  • Local H – Lifers (one song only)
  • Down The Lees – Bury The Sun

2020

  • Medusa – In Bed with Medusa
  • Glasgow – Glasgow EP (Mix Only)
  • Karabas Barabas – Degenerate National Anthem
  • dave the band – Slob Stories
  • Fuzz – III
  • Laura Jane Grace – Stay Alive
  • Living Things – Shapeshifter
  • Asylums – Genetic Cabaret
  • Lil BUB: The Band – Lil BUB (EP)

2021

  • Racing The Sun – Epidemic of Love
  • Mono – Pilgrimage of the soul
  • Ativin – Austere
  • Prince Of Lilies – Vent’

2022

  • CREEPSCIENCE – Shift the Paradigm
  • Cat’s Eyes – Night and Soul
  • Nina Nastasia – Riderless Horse
  • Corduroy Cat – 10% Hopeful
  • Black Midi – live at electric audio recorded by Steve Albini
  • Mikey Erg – Love at Leeds
  • Meet Cute – Party Mind

2023

  • Spare Snare – The Brutal
  • Liturgy – 93696
  • NO MEN – Fear This
  • Snailbones – Erroneous Harmonious
  • Laurel Canyon – Laurel Canyon
  • Ativin – Austere
  • Code Orange – The Above
  • CRYAMY – World

2024

  • Cheer-Accident – Vacate
  • Fire! – Testament
  • Facs – North American Endless
  • The Comfortists – Midwestless
  • Didjits – Strictly Dynamite: The Best of The Didjits
Steve Albini. Tutti gli album ai quali ha collaborato (o quasi) (2024)
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Author: Zonia Mosciski DO

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